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Dieci ragazze… e un matrimonio

Spesso non sappiamo interpretare una parabola perché non ne comprendiamo la metafora. Per la famosa parabola delle dieci vergini, ci aiuta rievocare come si svolgeva un matrimonio nell’antichità.

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Immaginate dieci ragazze che organizzano una festa di nozze per una loro amica.

Immaginate la chat da incubo tra loro dieci, finché, quasi all’ultimo momento, arrivano a una decisione che, come spesso succede, è un po’ assurda.

Sono compagne di studi, hanno studiato tutte archeologia o lettere antiche all’Università e vogliono fare una festa di nozze che ricalca il modo in cui si faceva ai tempi dell’antica Roma, con qualche adattamento, ovviamente.  Una trovata folle, è vero. Ma tutte le feste di matrimonio sono un po’ folli. E anche loro, diciamo la verità sono un po’ svitate.

Fatto sta che l’idea è simpatica e originale e riescono a convincere la coppia, anche lo sposo che all’inizio ovviamente era un po’ scettico…

Gli sposi hanno deciso di trascorrere in una bella villa in campagna la loro prima notte, perciò questo rende più facile organizzare il tutto e ricreare il clima giusto.

Dopo la cerimonia e la cena, dopo le bevute e i balli, e gli altri annessi e connessi soliti che tutti conosciamo, le ragazze, le dieci amiche, accompagneranno la sposa nella villa degli sposi, dove aspetteranno l’arrivo dello sposo, che le raggiungerà dopo, accompagnato da tutti i suoi amici. Appena arriverà la sfilata dei ragazzi, le ragazze usciranno incontro allo sposo e si uniranno al corteo che lo accompagnerà, attraverso il giardino, fin dentro la casa. Il tutto si farà alla luce delle fiaccole, con tamburi e chitarre, cantando e ballando le canzoni preferite degli sposi. Un momento indimenticabile.

Nell’antichità si faceva infatti così: gli amici degli sposi, ragazzi e ragazze, accompagnavano lo sposo fino alla porta della stanza dove i due avrebbero trascorso la loro prima notte insieme. Lì lo attendeva lei, ovviamente felice, bella e splendente come il sole, come tutte le spose. L’amico più caro dello sposo faceva un breve discorso e consegnava la sposa allo sposo. A quel punto tutti facevano gli auguri alla coppia, uno per uno, consegnando i loro regali. Poi i due entravano nella loro stanza tra scherzi e battute dei presenti. La porta veniva chiusa e gli sposi, finalmente, dopo tutta quella giornata impegnativa, rimanevano soli e si godevano la loro intimità in santa pace.

L’idea delle ragazze è proprio di ricreare quella magia. La sposa ci ha anche fatto la tesi di laurea. Perciò è necessario che tutto sia perfetto. La parte più difficile? le fiaccole. Le fiaccole sono la chiave di tutto. Tutta la magia sta lì. Le fiaccole sono dei piccoli bastoni in cima ai quali sono avvolti degli stracci. Perché brucino il tempo sufficiente per il corteo che accompagna lo sposo, devono essere poco prima impregnate nell’olio, che deve essere abbastanza, altrimenti si spengono. Le fiaccole alzate nel mondo antico sono simbolo di vita e sono di buon augurio per gli sposi, per nessun motivo al mondo si devono spegnere, perché questo sarebbe considerato un terribile segnale di sfiga. Insomma c’è una sola regola: giocando con le fiaccole si può anche dare per sbaglio fuoco ai capelli di qualcuno, ma una fiaccola che si spegne non si può tollerare per nessun motivo.

La genialata del corteo finale stile antico non è però l’unico momento della festa e, nonostante le raccomandazioni, alcune delle ragazze finisco per distrarsi tra mille altre cose e dimenticano ciò che serve per accendere le fiaccole.

Lo sposo fa pure tardi, per qualche motivo, forse perché gli amici, sempre terribili, gli fanno qualche scherzo. Magari lo buttano in piscina o gli fanno un gavettone di superalcolici e lui è costretto a cambiarsi.

Il tempo passa. Ormai è il cuore della notte. Non c’è campo e i cellulari non prendono. Che fine hanno fatto lo sposo e tutti i ragazzi? C’è stanchezza, ovviamente, e le ragazze finiscono per abbioccarsi tutte. Ma finalmente si sente un gran casino…: sto benedetto sposo è arrivato “eccolo, dobbiamo andargli incontro!”.

È il momento di accendere le fiaccole. E qui spunta il problema. Cinque di loro hanno dimenticato di fare la loro parte. Caspita! Avevano fatto pure le prove. Non c’è abbastanza olio per le fiaccole. “Dividiamolo!”, ma le altre sono, giustamente, contrarie: abbiamo messo su tutto questo balletto e adesso andiamo a fiaccole spente? Non se ne parla. Le cinque più organizzate sono inflessibili. Andate da un pakistano, o a un centro commerciale aperto 24 ore su 24. Ce n’era uno sulla strada, vicino al paese. Insomma un negozio aperto si trova sempre. Ma bisogna correre!

Quelle saltano in macchina sperando di fare in tempo. Fanno prima che possono, ma, quando tornano, è già successo tutto, gli sposi sono entrati nella loro stanza. Il momento più bello è passato.

Allora, una di loro, contro il parere di tutti, rompe le regole e fa una cosa da non fare assolutamente: bussa alla porta della stanza degli sposi: “vogliamo salutare, ci siamo anche noi”. Dentro gli sposi sono già nella loro intimità e si sente da dentro lo sposo rispondere, stanco e ovviamente un po’ irritato: “…ma chi ve conosce?”.

Scusate, in questo caso lo sposo era evidentemente romano…

La differenza tra la storia che vi ho raccontato e il modo in cui si svolgeva davvero il matrimonio nel mondo antico, soprattutto in Palestina, 2000 anni fa, era che la festa vera per tutti gli altri cominciava non prima ma dopo il ritiro degli sposi nella loro casa e durava anche parecchi giorni.

Insomma, spero che ora la parabola del Vangelo sia meno difficile da interpretare. Perché le ragazze che non hanno condiviso il loro olio con le altre possono entrare alla festa e le altre no? Come mai alla fine non sono perdonate?

La risposta deve tener conto del fatto che le ragazze meglio organizzate non potevano condividere l’olio perché avrebbero rovinato tutto e, una volta chiusa la porta della stanza nuziale, il momento più bello era finito. Le feste sono belle, ma hanno anch’esse delle regole.

Tutto doveva essere fatto in un certo modo perché fare diversamente era ritenuto un’offesa grave agli sposi e alle loro famiglie.

Un po’ come sarebbe oggi presentarsi a una festa formale in bermuda e infradito. Qualcosa ritenuto abbastanza offensivo da poter essere messi alla porta.

Insomma per far funzionare qualcosa, per creare un momento magico, per regalare una gioia, bisogna saper essere previdenti prima e a volte anche determinati, inflessibili al momento.

La parabola vuole ricordare che entrare nel Regno di Dio richiede anche questo: determinazione, prontezza, fermezza, la capacità di saper cogliere l’essenziale e il sapersi regolare di conseguenza, non trascurare nulla di ciò che conta. Insomma, ci vuole anche un briciolo di sana cattiveria.

Mi viene in mente il titolo di un famoso libro di Ute Ehrahardt: “Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto”. L’autrice intendeva capovolgere un paradigma. Le ragazze cattive che vanno dappertutto sono quelle determinate, che ci sanno fare, che non si lasciano trattenere da un conformismo che le vorrebbe sempre arrendevoli, cortesi e generose. Che, insomma, hanno capito come si fa a farsi valere e si organizzano per farlo davvero.

Le parabole sono pensate proprio per capovolgere i paradigmi. In questo caso, non le ragazze semplicemente buone, ma le ragazze previdenti e decise a far funzionare una festa, sono portate a modello. Senza fiaccole accese non si può partecipare. Hai trascurato ciò che serve a tenerle accese? A creare la bellezza di quell’istante? questo ti esclude automaticamente. Con chi te la devi prendere? Hai trascurato il dettaglio più importante nel momento più importante. Hai toppato. Non hai tenuto conto delle priorità.

Non basta essere amici con tutti e voler bene a tutti. Devi dimostrare la tua amicizia e la tua benevolenza nel momento preciso in cui è richiesto. Perciò, non essere negligente e sii saggio, cioè organizzati. Arriverà prima o poi un momento in cui nessuno può aiutarti, perché nessuno può prendersi le responsabilità al posto tuo!

Bella a tutti!

Per approfondire:

La parabola del guardiano notturno

Una parabola è un racconto breve che attinge dalla vita quotidiana per creare immagini che rimandano all’assoluto, al significato ultimo della vita: un meccanismo perfetto per pensare e andare al di là dell’ovvio.

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Le parabole sono parte essenziale del linguaggio del Vangelo e, dunque, del linguaggio religioso, specialmente di quello cristiano. Gesù, infatti, amava questo modo di comunicare. Era un vero e proprio autore di parabole, alcune delle quali fanno parte del patrimonio culturale e letterario di tutta l’umanità.

La parabola prende la vita, la vita reale e concreta delle persone, e ne fa un’immagine che rappresenta l’assoluto, l’infinito, il significato ultimo, universale della vita. In pratica usa il mondo per parlare di Dio e della sua verità. Si prende qualcosa di quotidiano e, attraverso la metafora, lo si rende segno di qualcosa di eterno. Si parla delle cose di tutti i giorni con l’intenzione di parlare delle cose che restano per sempre.

Se volete però davvero capire le parabole, per andare al loro senso profondo, diciamo “spirituale” dobbiamo perciò comprenderne la metafora, cioè partire dal livello più vicino a noi, quello sensibile e materiale, per poi affacciarci oltre.

In pratica dobbiamo afferrare quale situazione la parabola sta descrivendo della vita quotidiana, per poi andare oltre e, come quando si sale su un gradino per sbirciare oltre un muro, cercare di afferrare il suo messaggio.

Il motivo per cui questo richiede un certo studio è che le parabole descrivono un mondo che in parte somiglia al nostro in parte no, perché è il mondo degli antichi. Il mondo del I secolo, soprattutto quello della Palestina, che era un calderone, oggi diremmo un “melting pot” della cultura ebraica, greca e romana. Un mondo che inevitabilmente per certi aspetti è lontano da noi e richiede un certo studio, cioè un certo amore per ricostruire i dettagli della scena descritta che prendono vita soprattutto attraverso il loro contesto.

Per esempio, la parabola di Marco del padrone che parte per un viaggio e che non mette al corrente i suoi dell’ora in cui tornerà, ci offre una metafora semplice, intuitiva, ma possiamo renderla ancora più chiara se facciamo alcune considerazioni. Prendiamo per esempio la questione della casa.

Nel mondo antico, solo le case dei ricchi avevano una portineria.

La porta permetteva l’ingresso in uno stretto corridoio che portava a un atrio coperto che era il centro della casa. La portineria era presidiata sempre da uno schiavo specializzato nel compito. Si trattava spesso anche di una donna. C’era un portinaio e aveva un ruolo ben preciso, come il portinaio di oggi, dove ancora ce ne sono: notare chi entra e chi esce e, soprattutto, riconoscere chi si presenta e, eventualmente, verificarne le credenziali. L’apostolo Pietro, come sappiamo, ha avuto diversi problemi con le portinaie. Ricordate quando viene riconosciuto come un discepolo di Gesù alla portineria della casa del sommo sacerdote? Riconoscere le facce era esattamente il suo mestiere. E quando, dopo essere evaso di prigione si presenta in una casa abitata da discepoli e la portinaia, prima di farlo entrare, va ad avvisare la padrona di aver riconosciuto Pietro? Povero Pietro, ha avuto sempre problemi con la portineria…

L’idea di casa però non si limita all’edificio. Casa è spesso sinonimo di famiglia.

La casa affidata agli schiavi è la famiglia stessa, di cui gli schiavi a loro volta sono membri.

Ciascuno ha il suo compito, che deve esercitare a prescindere dalla presenza o meno del padrone. Nella casa tutti hanno delle responsabilità, non solo verso il padrone, ma anche gli uni verso gli altri, proprio perché tutto funzioni.

La casa di cui si parla perciò è anche una piccola società.

Nella morale greco-romana l’idea di casa poteva così facilmente poteva prendere le dimensioni del mondo intero.

Perciò facilmente chi ascoltava poteva associare subito la casa a tutta la famiglia umana.

C’è poi da considerare il tempo.

Il padrone parte per un viaggio di cui non si conosce né il motivo, né la durata. Quello che possiamo sapere è che non si viaggiava di notte per motivi di sicurezza. Nel mondo antico non c’era nessuna sorveglianza delle strade di notte. Anche quando si facevano cene, feste, eventi, si cercava di mandare le persone a casa prima del tramonto.

Quindi se ordina di vegliare potrebbe non essere andato lontano, oppure, se lo ha fatto, la sua ultima tappa deve essere a una distanza che permette di prendere in considerazione di fare un ultimo sforzo per arrivare a casa tardi senza dover pernottare di nuovo fuori. Il padrone non stabilisce un tempo e non da un appuntamento. È esattamente questo il punto. Nella parabola si può immaginare che il padrone non sappia prevedere quando torna o non vuole comunicarlo perché prevedere di far presto, ma si cautela. La condizione dei servi non cambia: non c’è modo per loro di conoscere il momento del ritorno del padrone di casa. Non possono fare previsioni.

Ora vediamo il fattore rischio.

Come abbiamo visto, la sicurezza è stata sempre un problema. Ma nel mondo antico lo era ancora di più. Le strade erano infestate di briganti e le città di ladri.

Viaggiare era rischioso, ma anche lasciare una casa incustodita. Soprattutto se eri ricco rischiavi di non dormire sonni tranquilli. Era perciò di vitale importanza avere servi fidati, per il tuo bene e quello di tutti i tuoi cari. La vita del padrone dipendeva dalla fedeltà incondizionata degli schiavi.

Anche per questo, era previsto dal diritto, anche se non sappiamo se questa norma venisse abitualmente applicata o se si ricorresse ad altre sanzioni, che il padrone avesse il diritto, in situazioni gravi, di mettere a morte i propri schiavi.

Un’ultima cosa che non ci deve sfuggire è la questione dell’incarico.

L’incarico fondamentale, quello cui il padrone tiene di più in sua assenza, è quello del portiere di notte. Questo significa vegliare, vigilare: fare il proprio turno di sorveglianza. Come una sentinella.

Il richiamo al mondo militare è dato dai quattro turni della notte, che corrispondono esattamente a quelli di una sentinella dell’esercito romano: dalle 6 del pomeriggio (che era il tramonto) fino alla sera (le nove), dalle nove a mezzanotte, dalla mezzanotte alle tre (che convenzionalmente si indicava con il canto del gallo) dalle tre all’alba, cioè alle sei del mattino.

Notate che le ore romane non erano di sessanta minuti – sono state tali solo a partire dalla rivoluzione francese – ma erano di durata variabile, cioè dipendevano sempre e solo dal sole. Quindi, qualunque fosse la stagione, l’ora prima del giorno cominciava con l’alba, e l’ora prima della notte cominciava con il tramonto. Quindi la durata stessa del turno poteva variare a seconda della stagione, perché la notte poteva essere più lunga.

Ma il punto è che essere sentinella è un compito rischioso. Il portinaio è la sentinella della casa. Il suo compito era di vitale importanza per proteggere la vita degli altri, perciò la sua pena, se sorpreso a dormire o ad assentarsi e a non rispettare il suo turno, poteva essere la morte.

Perciò “vegliare” va inteso letteralmente come “rispettare il proprio turno di servizio”. Lo stare svegli non è uno stato generico, ma è collegato direttamente all’affidabilità del servo che sa portare a compimento il compito vitale che gli è stato affidato.

Finalmente, ora abbiamo gli elementi più importanti per procedere a ogni interpretazione possibile.

Ricordate che la parabola non ha mai un significato univoco, perché è un motore che intende mettere in movimento la mente per produrre significati e mettere in movimento anche la volontà per spingerla realizzare scelte.

Perciò sono accettabili e, anzi, fondamentali interpretazioni diverse e diverse applicazioni concrete alla vita. Ma ci sono delle linee generali, dei binari che vanno rispettati.

In questo caso, la metafora suggerisce, a mio parere, queste conclusioni: 1) Il viaggio del padrone apre una sospensione che richiede un ritorno, un compimento. In parole povere chiede un atteggiamento di attesa. Il credente attende. La fede consiste nel saper aspettare, senza perdere la speranza. Ecco che cos’è “Avvento”: l’atteggiamento di chi si dà da fare perché consapevole di una responsabilità verso qualcuno, pur nell’incertezza. Incertezza perché il padrone, che ha detto che sarebbe tornato da un momento all’altro, potrebbe farsi aspettare a lungo e tu non ne sai di più. 2) Il padrone temporaneamente assente ha affidato dei compiti ai membri della sua stessa famiglia, la casa, perciò il tempo della sua assenza corrisponde a una responsabilità. Attendere significa lavorare, agire, fare il proprio dovere, non solo stare ad aspettare il padrone. 3) Il lavoro più delicato di tutti è quello di proteggere gli altri, di prendersi cura della loro sicurezza. È quello per cui si rischia la vita. Lo sanno bene i nostri amici delle forze dell’ordine, che rischiano la vita anche in tempo di pace. Il portinaio fa quello: rischia la vita per tutti. La rischia su due fronti: perché ne risponde con la vita, sia che faccia il suo dovere, sia che non lo faccia. È comunque, che gli piaccia o no, in una posizione scomoda. 4) La condizione di chi segue Gesù, del discepolo, del credente è esattamente quella: il portinaio che fa da sentinella al mondo. Qui di nuovo torna un tema caro a Matteo: la fede non è una rigida ideologia. Perché credere non è un privilegio, non è il biglietto per il paradiso, ma un servizio. La fede stessa è un’opera di servizio. Questo è il suo compito. Servire gli altri attendendo con fiducia. È, di fatto, la posizione più scomoda di tutte. Ma anche, dal punto di vista del vangelo, la più importante per il mondo.

Bella a tutti!

Per approfondire:

La samaritana e il marketing

Ci sono molti modi in cui si può interpretare una pagina del Vangelo. Questa volta concentriamoci sul punto focale del racconto, che non è tanto il dialogo, quanto il suo effetto…

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Durante il viaggio per tornare in Galilea dalla Giudea, dove le cose si stavano mettendo male, Gesù deve attraversare un territorio molto ostile, quello dei samaritani, da secoli rivali dei giudei. Gesù rimane solo, sotto il sole, affaticato, vicino a un pozzo, mentre i discepoli si allontanano per fare la spesa. Una donna samaritana si avvicina al pozzo e Gesù, stranamente, attacca bottone. I discepoli, quando tornano, sono sorpresi, di vederlo chiacchierare da solo, con quella persona che, ai loro occhi aveva almeno due grandi difetti: era una donna ed era pure samaritana. Quella, alla fine, se ne va via in fretta con la sua anfora, senza aver nemmeno dato da bere a Gesù.

I significati di questo episodio sono molti. Di solito si interpreta questo brano come una preparazione al Battesimo. Infatti, si parla molto dell’acqua come simbolo dello Spirito, ed è proprio questo il motivo per cui è inserito tradizionalmente tra le pagine che si leggono nelle domeniche di Quaresima.

Proviamo, invece, a leggere tutto l’episodio in un’altra chiave, che ci viene suggerita dallo stesso Vangelo di Giovanni. Se vogliamo capire il senso di una storia, dobbiamo capire dove va a parare. Il senso di una storia diventa chiaro infatti spesso nel suo finale. E come si conclude questo episodio? Con un momento di attesa che, alla fine, viene soddisfatta. Gesù non mangia perché dice ai discepoli che è ora di lavorare, ci sono per lui delle necessità più impellenti. Che cosa significa infatti che “il suo cibo è fare la volontà del Padre”? Significa che è in attesa di molto lavoro che sta per arrivare. Chi sta per arrivare? Che cosa sta aspettando Gesù? Che la sua chiacchierata profonda con la samaritana faccia effetto. Ed ecco, succede l’incredibile. I samaritani detestano i Giudei e non rivolgono loro la parola, ma ora vengono da lui praticamente tutti i samaritani del villaggio. Ecco il punto: a Gesù è bastato parlare con una persona, una persona sola, per conquistare prima la curiosità, poi il cuore di un villaggio intero di samaritani, cioè di gente che, in teoria, costituiva il pubblico peggio disposto che Gesù potesse avere.

La storia dunque è anche un grande insegnamento ai discepoli su come si annuncia il messaggio del Vangelo. Gesù in questo momento è un maestro del “marketing”. Il termine vi può sembrare irrispettoso, ma in realtà non lo è. Il marketing infatti consiste nel raggiungere il pubblico con un messaggio, che sia commerciale o no, non fa molta differenza, perché in realtà, la merce più preziosa di tutte è l’attenzione delle persone, il loro tempo. L’Evangelizzazione consiste nell’attirare l’attenzione delle persone, perché il tempo del loro incontro con Gesù possa cambiare in meglio la loro vita. Ed è quello che accade ai samaritani, come la conclusione dell’episodio ci ricorda.

Gesù non disprezza i singoli e i piccoli. Non teme di perdere tempo parlando con una sola persona, apparentemente persino la più improbabile, per raggiungere una comunità intera. Una sola persona infatti è parte di una rete che ne coinvolge altre. Nessun essere umano, in realtà, è davvero isolato. E Gesù offre a questa donna, in poco tempo, in sintesi, tutta la ricchezza e il valore del suo messaggio, ma, soprattutto, offre a lei rispetto e indivisa attenzione. Gesù chiede un bicchier d’acqua ma offre un valore, una merce rara: il rispetto e l’attenzione, senza giudicarla. Per parlarle poi di un’acqua misteriosa e potente che scaturisce da lui stesso, accendendo la sua curiosità. Come se lei, una donnina qualunque, fosse la persona più importante del mondo. Anzi. Non “come se”. Davvero, per lui, quella donna, è, in quel momento, la più importante del mondo. E allora il miracolo accade. Quale? Il seme è stato appena gettato e non c’è bisogno di aspettare i soliti quattro mesi per la mietitura. Eccola lì la mietitura, la famosa “messe” – per la quale gli operai sono sempre pochi –: arrivano i samaritani ad ascoltare Gesù! e lui si dona, si dedica a loro. E quelli lo vogliono, tanto da tenerlo impegnato per due giorni interi. Infine, li convince dell’impossibile: che lui è il Messia, di tutti, di Giudei e Samaritani, degli ebrei e dei palestinesi, dei bianchi e dei neri, dei cani e dei gatti.

L’episodio dovrebbe farci molto riflettere quando pensiamo alle strategie da seguire per raggiungere le persone, a come comunicare il Vangelo. A come “evangelizzare”. Gesù insegna una strategia molto chiara. Comincia dalle persone, anche da una sola. Con pazienza, con amore, con dedizione. Poi, la messe ci sorprenderà, perché, scopriremo che non siamo stati noi a lavorare, ma lui. Dobbiamo imparare a credere che non facciamo tutto noi, che non possiamo fare tutto noi. I discepoli sono chiamati a raccogliere quello che lui ha già seminato e continuamente semina nel mondo.

Per approfondire:

“Non abbiate paura!” (dei social)

I muri di una volta ricompaiono sui social e fanno paura. Ma non dobbiamo averne, se vogliamo abbatterli.

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Vi ricordate questo discorso di Giovanni Paolo II? “Aprite le porte a Cristo… Non abbiate paura!”.

A quel tempo, un muro divideva l’Europa e il mondo in due blocchi. L’invito di Giovanni Paolo II a non avere paura era rivolto a un mondo che si sentiva insicuro, lacerato da tensioni ideologiche, sempre sull’orlo di uno scontro apocalittico che non avrebbe avuto vincitori.

Il papa polacco, appena eletto, si rivolgeva ai due grandi contendenti che si fronteggiavano su quella che allora si chiamava “la cortina di ferro”: verso Est suonava come la richiesta urgente di garantire il valore della libertà, soprattutto religiosa, dopo decenni di persecuzione subiti dalla Chiesa;
verso Ovest era un richiamo a ritrovare il vero senso della libertà nelle proprie radici cristiane dimenticate.

A distanza di quasi mezzo secolo, con parole simili, papa Francesco invita oggi un mondo che si sente ancora insicuro per il terrorismo, per i cambiamenti economici e climatici, e per mille altri motivi, a non aver paura dell’altro, del diverso, dell’emigrato, di aprirsi al povero in cerca di speranza, di cercare sempre e comunque la strada della pace.

Il suo appello a non aver paura si rivolge particolarmente a coloro che pensano di risolvere i problemi del mondo chiudendosi in loro stessi, innalzando nuovi muri, ancora, di nuovo, per paura.

Come vedete, i tempi cambiano, ma le paure restano.

La storia del mondo in fondo si potrebbe raccontare come la storia dei suoi muri innalzati per paura anche se poi, sempre inesorabilmente, per un motivo o per un altro, prima o poi, sono caduti.

Ma anche la storia di tutti e di ciascuno si potrebbe raccontare come la storia delle nostre paure, vinte o invincibili… Una storia di piccole e grandi battaglie quotidiane, dove abbiamo vinto o siamo stati vinti dalla paura.

Gesù è stato il primo a dire: “Non abbiate paura”. Solo che nel Vangelo di Matteo Gesù non parla della paura del mondo di accogliere i suoi discepoli, ma di quella dei suoi discepoli davanti al mondo. Il problema per lui non è tanto la paura che viene dall’esterno, ma quella che ci paralizza, che ci toglie l’iniziativa, che ci castra e ci rende sterili, che ci porta a rimandare o a caricare su altri una responsabilità che invece è nostra.

Il discepolo di Gesù non è solo chiamato ad ascoltare, è chiamato anche a parlare a sua volta. Come ogni apprendista, deve interiorizzare il maestro per imitarlo e fare eco al suo insegnamento, in parole e in opere.
Gesù non vuole alunni solo attenti e obbedienti, come non li dovrebbe volere nessun insegnante, ma li vuole attivi, dinamici, capaci di partecipare e di prendere l’iniziativa. Nello specifico li vuole dotati della capacità di comunicare agli altri, a tutti, quindi al mondo, la ricchezza che hanno ricevuto. Hai ricevuto un valore, ora devi trasmettere un valore.
Insomma, come Gesù è stato un predicatore itinerante nell’annunciare il Vangelo, praticamente senza sosta, così vuole i suoi discepoli: gente inquieta, che non sta mai ferma, seminatori a loro volta della parola che ha germinato e portato frutto in loro.

Ogni discepolo è chiamato ad essere un comunicatore, un testimone, un catechista, un educatore, un insegnante, così come lo è stato il suo Maestro. Gesù si è sentito in debito della verità verso il mondo, e nessun discepolo può sentirsi “più grande” cioè esentato da questo dovere. Secondo Matteo il Vangelo è una pratica e il comunicare… fa parte a pieno titolo della pratica del Vangelo!

Fate attenzione: Gesù non ha detto di convincere, di convertire, di conquistare, di imporre, di contrastare chi non la pensa allo stesso modo. Ha detto solo di insegnare quello che lui aveva insegnato. Di comunicare lui. Di offrirgli, insomma, la nostra testimonianza o, se vogliamo usare termini un po’ meno biblici: Gesù chiede di sponsorizzarlo con la vita.

Certo, il mondo è pieno di pericoli, ma questo non deve fermare il discepolo.

Vi faccio un esempio, significativo, secondo me.
Quando si parla di internet e dei social network, vedo una grande resistenza e un grande pessimismo in molti educatori, insegnati, catechisti, in tanti che hanno una responsabilità formativa, per non parlare di chi ha incarichi pastorali, dei religiosi e delle religiose, dei laici impegnati, dei preti. E parlo di persone spesso anche giovani. È come se avessero paura della Rete.
Eppure, la Rete ormai è un luogo di incontro reale, non più solo virtuale, perché fa parte da tempo della vita quotidiana di tutti noi.

In questo campo si parla molto, ma si fa ancora poco. E quel poco che si fa, in molti casi si fa ancora male. Improvvisando totalmente, senza nessun progetto.

Paura di sbagliare? Ma come si fa ad imparare se non si sbaglia? Come si fa a migliorare se non si prova e si non riprova, se non si combina anche qualche guaio, se non ci si mette in gioco?

La scuola e la Chiesa forse hanno in comune una cosa, almeno in Italia: la prevalenza di addetti ai lavori, diciamo… di una certa età. In tutte e due questi ambienti ancora sento qualcuno parlare di “nuovi mezzi di comunicazione di massa”. Ma non sono più nuovi per niente. Sono vecchi. Internet ha cinquant’anni e questo oggetto ce l’abbiamo tutti nelle tasche da più di dieci… E mentre il mondo corre, noi restiamo bloccati dalle nostre paure, che poi diventano incompetenze.
Ecco. Non ce lo possiamo più permettere.

Il discorso può anche essere più generale. Persino laico. Se restiamo fermi, inattivi, chiusi nella nostra zona di conforto, non cambieremo mai, non miglioreremo noi stessi, né potremo lamentarci se ciò che amiamo viene trascurato o disprezzato dagli altri.

Ma c’è qualcosa, alla fine, di cui dovremmo davvero aver paura?
Beh, sì, se prendiamo sul serio il vangelo, in realtà dovremmo aver paura… solo della paura!

Per approfondire:

Davvero chi non crede è condannato?

Prima di dividere il mondo in credenti e non credenti e condannare in massa i secondi, bisogna comprendere meglio che cosa significa “non credere” secondo il Vangelo di Giovanni.

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Nel lungo discorso di Gesù a Nicodemo, quello che più colpisce è che, a un certo punto, da una parte, si afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi…”, poi però si afferma che “chi non crede è condannato”.
Il mondo si troverebbe diviso così, apparentemente, in credenti e non credenti. Che cosa dobbiamo concludere? Che i credenti sarebbero quelli “buoni”, mentre i non credenti i “cattivi”?
Se Gesù è venuto per salvare, perché chi non crede sarebbe condannato? Devo ammettere che, se fossi non credente, onestamente, mi girerebbero anche un po’ le scatole…

Leggiamo però con più attenzione. Per capire un testo ci serve sempre un contesto.

Il discorso di Gesù a Nicodemo riprende un’idea che Giovanni ripete, per tutto il Vangelo, a cominciare dal suo prologo: Gesù è il “logos” che è la vita degli uomini. Attraverso di Lui, si riversano sul mondo “la grazia e la verità” che lo trasformano.
La vita di tutto il genere umano viene da una fonte: Gesù stesso che si dona. Il mondo è sofferente, come avvelenato. Per guarirlo Dio dona al mondo la vita di Gesù. Da Lui viene una trasfusione di vita che salva tutti, una vita talmente abbondante e potente che è capace di abbattere anche la barriera della morte: chi la riceve non muore. Ecco la vita eterna.

Avere fede, per Giovanni, consiste nel lasciarsi raggiungere da questo dono, da questa abbondanza di vita che Dio dona al mondo.
Come il sole è nel cielo per tutti, così la vita di Gesù è offerta a tutti e tutti ne possono godere.

Al contrario, NON avere fede, non credere, significa preferire, sempre e comunque, il buio. Ma come si fa a preferire il buio e la morte? Lo fa, purtroppo, chi ha davvero qualcosa da nascondere.
Non tanto chi è ingiusto, imperfetto o chi fa casini a ripetizione, il cosiddetto peccatore, per intenderci, ma chi è profondamente disonesto, chi è sceso a patti con il male e ne ha fatto una scelta di vita. Ecco, allora, che cosa significa NON credere in Giovanni: essere “corrotti” dentro, cioè essere in “mala-fede”.
Non voler vedere e sostenere, nello stesso tempo, di vedere. Qualcosa perciò di molto diverso dal “non credente” onesto e in buona fede, che ama e ricerca comunque la verità.

Per farla breve: nel vangelo di Giovanni sono condannati coloro che condannano Gesù, l’uomo innocente, perché vedono in ciò un qualche loro vantaggio, coloro che preferiscono il male pur sapendo perfettamente che cos’è davvero il bene.
È come se proprio il dono della vita di Gesù, la sua luce, illuminasse e rendesse evidente qualcosa di inaspettato: Dio ha mandato il Figlio per salvare, cioè per guarire il mondo dal male, ma esiste un male ancora più grande che gli può resistere.

Questo male assoluto, ancora più grande di ogni altro male, è una scelta, un rifiuto che fa la differenza. Opera in altre parole, un “giudizio”.
Per Giovanni le parole e le azioni di Gesù che culminano nel dono di se stesso sulla croce, sono come una “luce” che si proietta su di noi e ci dice chi siamo veramente. Un fascio di raggi X che ci dice dove sta la frattura, una risonanza magnetica che svela dove si nasconde il nostro cancro.

Esporsi a Gesù, finire sotto il suo riflettore, significa mettere in evidenza il valore delle nostre azioni, le conseguenze delle nostre decisioni.
Non è perciò la fede, se la intendiamo come scelta ideologica, dottrinale, religiosa, che crea due schieramenti, uno di eletti e l’altro di dannati. Credere o non credere non divide il mondo sotto due bandiere. Quello che accade, oggi, nel presente non nel giorno del giudizio, è che la parola di Gesù, gettando luce sulle azioni degli uomini, ne svela il loro giusto valore.
È come dire: il vangelo costringe l’uomo a fare i conti con se stesso e a giudicare se stesso.

Su un muro di Roma, un graffitaro devoto ha scritto “Gesù ti ama”. Un altro graffitaro, forse ancora più devoto, ha aggiunto due lettere: “Gesù ti (sg)ama”. Ecco una sintesi perfetta. Di fronte a Dio, che si rivela in Gesù, non ci si può nascondere.

La rivelazione di Dio corrisponde alla rivelazione di noi stessi. Proprio perché ti ama, Gesù ti sgama.

Per approfondire:

Adamo si veste di luce: la Trasfigurazione.

La Trasfigurazione è un episodio sulla nudità. Quella della verità innanzitutto. Gesù smette di raccontare parabole e comincia a parlare chiaro: sarà condannato a morte ma risorgerà. Poi, si spoglia di ogni apparenza. E si mostra così com’è, nudo, come Adamo.

Sotto il velo di ciò che appare si può nascondere di tutto.

La trasfigurazione di Matteo è una pagina di una ricchezza impressionante. Si potrebbero dire un’infinità di cose, ma concentreremo l’attenzione solo su due elementi.

1) Per cogliere meglio il senso della trasfigurazione di Gesù, bisogna tener presente dove è collocato il suo racconto, cioè ciò che è avvenuto prima e ciò che avviene dopo nella sequenza offerta dall’evangelista. Prima abbiamo visto Pietro che esprime la sua fede in Gesù, Messia e Figlio di Dio, a Cesarea. Gesù, esattamente da quel momento, comincia a parlare a chiare lettere della sua passione e della sua morte. Alla reazione scandalizzata di Pietro, Gesù risponde con un rimprovero severo: Pietro, da fondamento della fede di tutti i credenti, diventa improvvisamente come “satana”, perché non ragiona con la logica di Dio. Però poi Gesù lo prende in disparte, insieme a Giacomo e Giovanni, per andare in cima al monte dove Dio cambia l‘aspetto di Gesù. Perciò tutto l’episodio è una risposta all’incredulità dei discepoli, a cominciare da quella di Pietro, che crede sinceramente, a parole, che Gesù sia il Messia e il Figlio di Dio, ma che ancora non crede nei fatti, come dovrebbe, perché rifiuta il modo in cui Gesù si presenta come Messia e Figlio di Dio al mondo, cioè attraverso la sua morte di croce. La trasfigurazione risponde perciò alla mancanza di fede dei discepoli e nello stesso tempo li prepara ad affrontare lo shock della morte di Gesù, in vista della loro fede matura. Il Padre mostra ai discepoli il volto “trasfigurato” per prepararli alla vista di quello “sfigurato” di Gesù. Ma è proprio, il secondo, quello “sfigurato” il volto con cui il Figlio di Dio si rivela al mondo. Il Tabor è una preparazione al Calvario.

2) Il volto di Gesù divenne brillante come il sole e la sua veste divenne di luce. Matteo fa qui due riferimenti importanti alla tradizione ebraica. Il primo riferimento è a Mosè, che, dopo aver parlato con Dio, per non abbagliare chi lo incontrava, era costretto a velarsi il volto. Qui però Gesù porta sempre un velo, quello della sua umanità, ed è Dio stesso che lo solleva mostrando ai discepoli tutta la verità su chi è Gesù. Dio, che ha coperto il volto di Mosè, ora svela il volto di Gesù. E che cosa vedono i discepoli? Luce, pura luce. Ma questo che cosa significa? Qui troviamo un secondo riferimento alla tradizione della sinagoga. Adamo ed Eva, nudi, nel paradiso erano vestiti solo della loro pelle. Solo dopo aver perso la loro felicità originaria cominciarono a coprirsi con i vestiti. In ebraico classico, pelle si dice “òr” mentre la parola “luce”, anche se si scrive diversamente, si legge allo stesso modo: “òr”. Matteo sapeva che i rabbini giocavano con queste due parole, dicendo che Adamo, che in paradiso era coperto di luce, cioè solo della sua pelle, dopo aver disobbedito, aveva coperto la sua luce, cioè la sua vera condizione, il vestito che Dio stesso gli aveva dato, la sua nudità felice, la sua trasparenza a Dio, con delle vesti opache. Gesù, vestito di luce, è perciò in realtà nudo, coperto della sua pelle umana, del vestito originario di Adamo, cioè della sua luce. È l’uomo vero, come Dio l’aveva pensato e creato. Il riferimento, ovvio, è anche alla nudità di Gesù sul Calvario. Perciò nella trasfigurazione di Gesù non si manifesta solo la sua divinità, ma ci sono tutti gli uomini e ciò che viene rivelata non è solo la natura del Figlio di Dio, ma la verità, tutta la nuda verità, su che cosa sono davvero gli esseri umani.

Il monte Calvario e il monte Tabor sono perciò inseparabili. La croce è la porta attraverso la quale tutta l’umanità ritrova se stessa.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Che cosa sarà il giudizio universale?

Come sarà il Giudizio Universale? Appartenere a una fede o a un’altra farà la differenza? Secondo il Vangelo di Matteo, saremo giudicati secondo un criterio molto semplice, in maniera davvero “universale”.

Conoscete il Giudizio Universale di Michelangelo? Se non venite da un altro pianeta, probabilmente sì.

Il Cristo, al centro dell’affresco, è al centro anche di tutto il movimento che fa salire i beati al cielo e allontana i dannati da lui. È l’occhio di un ciclone la cui potenza è la manifestazione della giustizia divina che rimette a posto tutte le storture del mondo e dà finalmente a ciascuno il suo.

La cosa però che pochi sanno è che questa immagine non è ispirata tanto dall’Apocalisse, quanto da una pagina del Vangelo di Matteo: precisamente dal capitolo 25, lo stesso capitolo che racconta le parabole delle dieci vergini e dei talenti, che abbiamo commentato in altri due video.

La scena del Giudizio Universale è una scena unica, che non viene raccontata in nessun altro Vangelo.

Nel Vangelo di Matteo le parole che descrivono il giudizio finale sono le ultime parole di Gesù prima della sua passione. Le parole con cui Gesù chiude la sua predicazione.  È come se tutto il suo messaggio convergesse in quel racconto, in quella scena, in quel momento.

Del resto, tutta la storia del mondo, stando al Vangelo, converge su quel momento.

Accade così un po’ quello che accade quando si sta fuori in attesa di dare un esame.

Tutti vogliono sapere una cosa sola: che cosa chiede il professore? Ecco, qui Cristo rivela l’unica cosa su cui ci viene chiesto davvero di essere preparati nella prova finale, quella in cui si può essere definitivamente promossi o bocciati.

Il giudizio si svolge su una scenografia grandiosa che raduna al cospetto di un uomo solo tutta l’umanità. Tutta la differenza la fa un gesto, offerto o rifiutato: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere,

nudo e mi avete vestito, affamato…”; e al contrario, per coloro destinati alla condanna: “avevo fame e NON mi avete dato…”, avevo bisogno e mi avete detto NO o mi avete ignorato. Fare o NON fare. Un criterio che tutti possono comprendere. Non servono catechismi, né dottrine, né lauree in teologia.

Il giudizio è estremamente semplice, basato su gesti fondamentali che gli essere umani sono in grado di compiere gli uni verso gli altri.

La cosa sorprendente? Non si parla di fede religiosa, né di abitudini religiose, né di scelte di campo, né di appartenenze. Si parla solo di fatti, di azioni.  E di azioni non particolarmente complicate o difficili. Non si parla di imprese e di eroismo. Non si parla di numeri. Si parla di gesti umani, diretti ed efficaci: dare da mangiare, da bere, visitare, vestire. Si parla di un accudire, di un prendersi cura, di uno stare accanto a chi incrocia la nostra strada in uno stato di bisogno. Non importa quante volte sia accaduto, non importa quante persone siano state coinvolte.

Non ci sono parole di condanna per gli atei, per gli eretici, per i pagani, per i non credenti o per quelli che credono diversamente. In questo giudizio, unico e speciale, sono condannati solo coloro che sono stati responsabili di un solo delitto irrimediabile: l’omissione. “Potevi fare, ma non hai fatto”. Dove sono le religioni, le chiese, le ideologie? Non ci sono. Nel giudizio, almeno di sicuro nel giudizio che conta, non ci sono.

Secondo il Vangelo di Matteo non saremo giudicati per le nostre convinzioni, per il colore delle nostre bandiere, né per le messe cui abbiamo partecipato, per i pellegrinaggi, per le ore trascorse in preghiera, nemmeno per il nome con cui invochiamo Dio.

Nemmeno farà la differenza se avremo invocato un Dio. Saremo giudicati come esseri umani, sulla nostra umanità. Non sarà un giudizio religioso, sarà un giudizio laico.

Laico nel senso più vero del termine. Perché saremo tutti trattati allo stesso modo.

Si tratta perciò di un giudizio che non fa distinzioni, che non fa differenze, che non guarda in faccia a nessuno. Un giudizio davvero, assolutamente, universale.

Ma la cosa più stupefacente, la cosa più spiazzante è l’effetto sorpresa, sia in chi ha usato misericordia sia in chi l’ha negata. La sorpresa di scoprire che un gesto semplice fatto od omesso e poi dimenticato poteva avere conseguenze così profonde e decisive. “Quando ti abbiamo incontrato e ti abbiamo aiutato o ti abbiamo abbandonato?”.

Dio, il Cristo, il giudice, si nasconde in ogni uomo e si nasconderà in ogni uomo, fino alla fine dei tempi. Vuole essere dimenticato, vuole essere ignorato, perché non vuole essere amato come Dio, ma come uomo.

Non vuole essere adorato, non vuole riti e sacrifici. Vuole essere salvato, accudito, protetto. La misura della verità non è dunque nei pensieri, nelle parole, nelle frasi, ma in ogni gesto di solidarietà e di attenzione.

La risposta a tutte le nostre domande, la soluzione a tutte le nostre inquietudini dunque non è domani, non è nel cielo, in paradiso, nell’aldilà, nell’eternità, come se all’eternità o al paradiso si potesse accedere pagando il biglietto di essere o sentirci brave persone.

Nel giudizio finale, tutti gli schemi saltano.

L’unica verità che ci serve, l’unica vera risposta di cui abbiamo bisogno sta nell’incontro con gli altri esseri umani, nella vita stessa, nell’oggi, dove, stendendo la mano o trattenendola, incontriamo subito la nostra salvezza o la nostra dannazione.

Alcuni filosofi atei hanno detto che l’unico Dio che bisognerebbe adorare è l’uomo.

Il loro errore è l’errore più vicino alla verità. Ma non tanto perché sostituiscono l’uomo a Dio, ma perché pensano a un uomo generico, a un’idea di uomo, che, alla resa dei conti, è solo un altro idolo.

Il Vangelo di Matteo dice al contrario che davvero devi onorare l’uomo come un Dio,

ma non un’idea astratta di uomo, ma quest’uomo concreto, in carne e ossa, quello che ti viene incontro imperfetto, debole, dolorante, bisognoso e fragile.

Questo è il vero Dio che devi onorare senza chiese, ma solo “in spirito e verità”.

Non fa alcuna differenza quello che pensiamo o diciamo di credere. Perché ogni nostra azione verso il prossimo ci pone davanti al nostro giudice in quello stesso istante. Lui, solo lui, l’amore stesso, ci giudicherà.

Per approfondire:

La vera differenza tra povero e ricco

La povertà assoluta diminuisce, ma i due estremi, gli straricchi e i poveri privi di tutto, aumentano. La cosa più grave? Chi è davvero povero non ha più la possibilità di risollevarsi.

Cominciamo con un autobus a due piani. Di quelli che si trovano a disposizione per i turisti nelle grandi città. Ora immaginate che imbarchi 62 persone. Ci stanno anche larghe, perché di solito un autobus a due piani dispone di ottanta posti. Ecco, le persone su quell’autobus possiedono tanta ricchezza quanta ne possiede metà delle persone che ci sono nel mondo. In pratica ci sono 62 persone che possiedono più beni e denaro di altre 3.600.000.000!

Se poi consideriamo tutti i beni che ci sono nel mondo, tutta la ricchezza che può contenere, sappiamo anche che l’1 per cento di tutti i suoi abitanti, cioè si è no settanta milioni di persone, ne possiede più del restante 99%.

Una buona notizia c’è: il mondo negli ultimi decenni è diventato meno povero, cioè il numero assoluto dei poveri è diminuito. Ma ce n’è anche un’altra cattiva: la ricchezza cresce, ma non è ben distribuita.

Si assiste a un fenomeno importante: anche se la povertà assoluta diminuisce, i due estremi, i ricchi straricchi, e i poveri privi di tutto, crescono, mentre si assottiglia lentamente la classe media: chi è molto ricco diventa sempre più ricco e chi è molto povero diventa sempre più povero. È un problema serio, perché questa grave disparità finisce per privare un grande numero di persone dell’accesso a ciò che è indispensabile per vivere o per poter anche solo sperare di migliorare la propria vita.

In parole povere, se si è tremendamente poveri, non si ha più la forza di risollevarsi.

Un ricco, per esempio, non ha solo più facile accesso al buon cibo, all’emporio dei grandi sarti o a una Lamborghini, ma può far valere la sua opinione, influenzare la politica, e, soprattutto, avere accesso alle ultime scoperte della medicina o agli avvocati che proteggono i suoi diritti se qualcosa va storto. Mentre chi è molto povero non è qualificato, non può contare sul sostegno di nessuno, non ha accesso a una buona istruzione, non può pagarsi le cure mediche. Nei casi più gravi non ha accesso al cibo, a un tetto, a un vestiario decente. Risultato? Muore.

La povertà, perciò, uccide più persone di quante ne uccida la guerra. È una terribile verità sulla quale non si riflette mai abbastanza.

La parabola di Lazzaro e del ricco egoista affronta proprio questo problema.

Che cosa dice questo raccontino? Vuole farci credere che dopo la morte torna tutto a posto e le sorti si invertono? Sarebbe una consolazione a buon mercato, davvero irritante! Una vera offesa a coloro che soffrono…

Ma leggiamo attentamente. Da una parte c’è un ricco esagerato e dall’altra un povero che muore di stenti. A separarli, c’è solo una porta. Il povero guarda il ricco dal basso, desiderando le briciole della sua tavola imbandita, di cui vede solo la parte inferiore, cioè quello che c’è sotto, non quello che c’è sopra. Quello che c’è sopra nemmeno se lo sogna.

La sua situazione è così miserabile che non può fare scelte, è impedito persino a muoversi ed è ridotto a una condizione inferiore a quelle delle bestie di strada: i cani randagi, appunto, che leccano le sue piaghe.

Dopo la morte di tutti e due, le parti si invertono.

Ora il ricco si trova in basso e guarda verso il banchetto eterno dei figli di Abramo, mentre la porta si trasforma in un abisso invalicabile. Le piaghe infiammate di Lazzaro sono ora le bruciature perenni del ricco. Prima c’era una possibilità di scambio e di incontro, ora non più, perché la morte ha segnato un punto di non ritorno. Per salvare il povero bastava un gesto. Ma anche il ricco è perduto, perché la sua salvezza dipendeva da quella del povero. Lazzaro ha vissuto la vita di una bestia di strada, mentre il ricco, che non è stato umano, ha vissuto anche lui come una bestia e ora si ritrova nell’inceneritore d’immondizia dell’Universo. Il fatto che non ci sia più rimedio alla situazione, richiama la necessità di rendere consapevole il ricco che, per salvarsi, aveva una possibilità che, notate bene, Lazzaro non aveva: ascoltare la Legge di Dio. In pratica: la voce della sua coscienza, quella regola che Dio ha scritto nel cuore di tutti, che si creda in lui o no.

Il nodo di tutta la storia è semplice: solo il ricco ha la possibilità di scegliere, mentre al povero non è data questa possibilità. Per questo il povero è in paradiso, perché chi non ha scelta è innocente. Non può capire, non può decidere, non ha la forza nemmeno di fare introspezione, di ricordarsi che ha un’anima, perché si vede ridotto sotto il livello dei cani randagi che leccano le sue ferite.

I ricchi invece hanno responsabilità perché possono godere della ricchezza più importante: possono comprendere e possono scegliere. Insomma, possono qualcosa. Possono capire. Possono vedere. Possono fare la differenza. Possono aprire quella porta. Ma se non ascoltano la voce della giustizia e della coscienza, niente può scuotere il loro disinteresse, nemmeno i morti che tornano in vita per raccontare come realmente stanno le cose.

Questa parabola non vuole consolare. Al contrario, carica di responsabilità chi la ascolta. Vuole tenerci svegli la notte, perché tutti abbiamo un Lazzaro, un povero che conosciamo distrattamente, di vista, ma che Dio conosce bene per nome, alla nostra porta. Quella porta che ci separa da Lazzaro è una porta sottile, una soglia che può essere varcata con un semplice atto di umanità. Non farlo, però, ha delle conseguenze irreversibili e tragiche. Perché, a meno che non siamo davvero malvagi, e il ricco non lo era, ciò che rende davvero cattive le nostre azioni non è tanto il male che contengono, ma il bene che omettono.

La morale insegna che chi deve può. Il Vangelo ci grida che chi può deve.

Per approfondire:

Che cosa significa credere che Cristo è risorto?

Non si tratta solo di decidere se credere o no al fatto che un morto sia tornato in vita. È molto di più.

Forse avrete visto le immagini di papa Francesco al Cairo insieme al papa dei copti, Teodoro. Con loro si sono riuniti i rappresentanti di quasi tutte le chiese cristiane del mondo. Gente apparentemente diversa, che veste in modo diverso, che prega e celebra la propria fede in modo diverso. Ma che cos’hanno davvero in comune tutti i cristiani di ogni genere e specie nel mondo? Credono nella Resurrezione di Gesù.

Ma che cosa significa credere nella Resurrezione?

La prima cosa che ci viene in mente è che qualcuno morto sia tornato in vita. È corretto, ma non può essere tutto qui. Ci sono molti racconti di gente tornata viva dalla morte. Anche oggi se ne parla, e si tratta persino di racconti verosimili. Poi ci sono i miti dei popoli antichi, pieni di racconti di resurrezioni, e tantissimi racconti che si rifanno a questi miti: persino nei fumetti e nei cartoni animati ci sono personaggi che tornano dalla morte più forti di prima.

Ma tornando alle cose serie, la Bibbia stessa racconta di molte resurrezioni. Tanto che anche secondo i Vangeli, i nemici di Gesù, che credevano nella Bibbia, si aspettavano che i discepoli avrebbero potuto raccontare in giro che Gesù era tornato dalla morte e, proprio per questo, non credettero ai loro racconti.

Alcuni di voi direte: “Ma che dici, prof? la risurrezione di Gesù è accaduta VERAMENTE. Questa è la differenza!”. Beh, sappiate che nemmeno questo riesce davvero a impressionare.

Perché dovrebbe riguardarmi infatti il racconto di uno che è morto e poi viene visto vivo? Anche se si trattasse di un fatto realmente accaduto?

La domanda vera perciò è: perché dovrebbe riguardare me? Che differenza fa, nella vita quotidiana, ritenere ancora vivo qualcuno che prima era dato per morto?

Due discepoli, dopo la morte e la sepoltura di Gesù si allontanano da Gerusalemme per andare in un posto chiamato Emmaus. Non era un posto importante, ma era famoso perché gli ebrei avevano vinto lì, in passato, una famosa battaglia che li aveva liberati dall’oppressione dei nemici greci. A Emmaus, Israele, lottando, aveva ritrovato la libertà. I discepoli stanno andando lì, ma, secondo il racconto, è un percorso che fanno non solo con i piedi, ma con la mente. Per loro, che ora non credono più in Gesù, le cose hanno un senso se si arriva lì, a Emmaus, a quella libertà che quel posto rappresentava. Per tutto il Vangelo, Gesù ha invece camminato verso Gerusalemme. Anche qui, non si tratta solo di un posto, ma di uno scopo di vita. Gesù è andato a Gerusalemme per dare la vita per morire sulla croce. I discepoli vanno verso Emmaus per prendersi la propria vita e la propria libertà. Insomma i discepoli vanno nella direzione opposta alla quale Gesù è andato per tutta la vita. Detto in altre parole: il senso della loro vita è diverso dal senso della vita di Gesù.

Che cosa accade ora? Gesù cammina e dialoga con loro su ciò che gli è successo, ma quelli non lo riconoscono. È lì con loro, davanti a loro, ci parlano, lo ascoltano, ma, incredibilmente non riescono a riconoscerlo. Finché… finché non capiscono che Gesù è il senso di tutto, di tutta la storia che hanno vissuto, di tutta la loro vita. Allora, e solo allora, capiscono che era veramente lui. E nel momento in cui lo hanno riconosciuto con la mente, non lo vedono più con gli occhi.

Il punto è che la risurrezione di Gesù non può essere vista solo come un fatto raccontato, riguardo al quale dobbiamo decidere se crederci o no. Il Vangelo dice che dobbiamo capire se vediamo in essa o no il senso della nostra vita, il senso di tutte le cose.

Chi crede nella risurrezione di Gesù ha fatto di Gesù il senso della propria vita. Per questo può incontrarlo, vederlo in chiunque.

L’esperienza di Gesù risorto allora possiamo farla tutti. È la persona, spesso lo sconosciuto, che cammina accanto a noi. Basta guardare la propria vita in modo diverso, basta guardare le cose in modo diverso per riconoscerlo.

Credere nel Risorto non è quindi come credere in un miracolo, ma è vedere Dio in ogni essere umano.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Perché scegliere l’ora di Religione anche se non sei cattolico

Oggi, più che mai, non conoscere la religione significa rischiare di non comprendere il mondo.

La domanda è: “per coloro che non sono credenti o che sono credenti ma non cattolici, vale la pena di seguire l’ora di insegnamento della religione cattolica?”. Secondo me, decisamente sì.

Voglio offrire qui 7 motivazioni che trovo particolarmente importanti.

Primo motivo: l’insegnamento della religione oggi non è più offerto in modo confessionale, anche se la materia, presa in se stessa, lo è. Tradotto: garante dei contenuti è la Chiesa, ma tali contenuti sono – e devono essere – al servizio di tutti, al di fuori di ogni appartenenza.

Dal punto di vista giuridico: un contenuto confessionale (la religione cattolica, appunto), liberamente scelto, viene offerto in modo non confessionale, cioè non finalizzato alla persuasione concettuale, ma alla conoscenza e alla crescita personale di ogni cittadino dello Stato.

La conferma è definitiva la trovate in un’intesa del 2012, attiva dall’anno scolastico 2013, resa esecutiva con un decreto del Presidente della Repubblica, tra il Ministero dell’Istruzione e la Chiesa italiana.

In pratica, questo significa che l’insegnamento della religione non è e non deve essere catechismo o una forma di indottrinamento, ma istruzione della conoscenza religiosa in funzione di un allargamento della comprensione dei fenomeni sociali e culturali. In altre parole, lo studio della religione è offerto come un aiuto a comprendere meglio il mondo di ieri e di oggi. Serve a completare la formazione culturale. Chi crede, avrà più consapevolezza di ciò in cui crede, chi non crede, avrà più consapevolezza di ciò che credono gli altri e di ciò che ha scelto di non credere. Chi è indeciso o dubbioso avrà occasione di farsi un’idea più chiara in funzione di una sua eventuale decisione personale, attuale o futura. Insomma, l’insegnamento della religione può contribuire a fare dei cittadini più consapevoli, perché non è indottrinamento, ma un invito all’approfondimento e alla comprensione critica.

Secondo motivo: sapere è sempre meglio di non sapere. In tutti i campi, compresa la religione.

Non si può ignorare la tradizione religiosa, soprattutto se è la propria.

Comprendere la religione è comprendere meglio l’umanità e il mondo. Ma soprattutto la cultura, il mondo che l’uomo stesso ha costruito intorno a sé e nel quale la religione svolge un ruolo importantissimo, qualunque sia l’opinione personale di chi la studia.

In pratica: puoi non credere in alcuni concetti, non condividerli in parte o non condividerne nessuno, ma, in ogni caso, puoi capire quei concetti e puoi afferrarne meglio le implicazioni. Conoscere la religione ti aiuta insomma a comprendere meglio te stesso e gli altri. Una ragione fondamentale che, anche da sola, basterebbe.

Terzo motivo: la religione è un linguaggio comune. Saperlo comprendere è un contributo all’integrazione, a tutti i livelli. Si possono parlare tante lingue, anche se la tua lingua madre sarà sempre la tua in modo speciale e quella non te la leva nessuno. Si parla spesso di bisogno di integrazione e di approccio multiculturale alla diversità. Frequentare l’ora di religione, può dare un grande contributo alla soluzione di questo problema.

Quarto motivo: anche se non sei credente o se non credi nella religione cattolica, le religioni sono un dato di fatto con cui farei i conti.

Puoi non credere in Dio e scegliere di ignorare la sua esistenza nella vita, se vuoi, ma non puoi ignorare la religione. Puoi avere dubbi che Dio esista o credere che non esista, ma le religioni esistono, ed esiste anche la religione cattolica, ed ha un peso importante nella storia, nella cultura, nella tradizione del nostro paese.

Quinto motivo: l’ora di Religione ti abitua al confronto e al dialogo, perché spesso si svolge in un clima sereno e aperto al dibattito con l’insegnante, ma è anche un luogo dove si svelano e si confrontano le opinioni di tutti coloro che partecipano attivamente.

Sesto motivo: la Religione è una materia multidisciplinare, perché ha dei punti di incontro o di confronto con diverse altre materie e più di altre si presta a offrire delle prospettive, delle sintesi o delle visioni d’insieme. La religione si ritrova nella storia, nella filosofia, nella geografia, nella psicologia, nel confronto con la conoscenza scientifica, nella logica, nel latino, negli autori italiani e non italiani e chi più ne ha più ne metta. La religione è talmente radicata nella cultura che conoscerla non può che aiutare a comprendere meglio ogni disciplina, da punti di vista diversi.

Settimo motivo: per la formazione personale, tutte le scelte hanno la stessa dignità, anche quella di non fare religione. Ma frequentare una materia in più è sempre meglio di una materia in meno, soprattutto nelle scuole superiori. E questo vale anche per la materia alternativa.  Quindi se non fate religione, fate almeno la materia alternativa, ma di questo parleremo in un altro video.

Sette è un bel numero e mi fermo qui, ma credo si potrebbe continuare. Allungate l’elenco nei commenti e aggiungete le vostre motivazioni oppure stroncatemi impietosamente. Ogni contributo fatto in modo civile è bene accetto.

Bella a tutti!

Per approfondire:

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