Si può davvero “fermare” Dio, impedirgli persino di agire? In un certo senso, secondo il Vangelo di Marco, sembra di sì. Gesù non può operare miracoli e guarigioni se si imbatte nella “apistìa”, la mancanza di fede o, se vogliamo, la “diffidenza”. Se la fiducia nel Maestro può qualunque cosa, la sfiducia e il pregiudizio, possono rendere inefficace persino la potenza di Dio.
È il mistero del rifiuto, sperimentato da Gesù stesso proprio nel suo paese, tra i suoi parenti, nella sua stessa casa. Gesù torna nella sinagoga di Nazareth a predicare, ma inutilmente. Tutti i suoi compatrioti lo snobbano, lasciandosi condizionare dalle facili etichette.
Nell’economia narrativa dell’evangelista, si tratta di un racconto di passaggio. Si sta infatti chiudendo un atto per passare al successivo, ancora più importante. Finora Gesù ha compiuto segni e annunciato messaggi, ha compiuto miracoli e raccontato parabole. Ora però sono proprio i seguaci di Gesù che stanno per essere chiamati in causa. Non possono più restare spettatori. Gesù li chiama a scendere nell’arena, come agnelli tra i lupi. La loro missione non comincia dal successo, ma dal rifiuto.
È chiaro perciò fin da subito che seguire Gesù non è certo una passeggiata. Ma il mistero del rifiuto ne nasconde uno ancora più profondo: quello pasquale, perché esattamente in quel rifiuto si nasconde il passaggio decisivo: quello della morte che diventa resurrezione, di una negazione che diventa affermazione, secondo la logica del seme più piccolo che diventa un albero capace di dare rifugio agli uccelli del cielo.
Qual è la chiave che apre il cuore di Dio? Sembra una domanda superflua, perché il cuore di Dio non può essere “chiuso”. Eppure il Vangelo di Marco, come tutta la Rivelazione cristiana, ci dice che tra noi e Dio, così come tra noi e gli altri, esiste una “barriera” che ci impedisce di comunicare e di attingere alla fonte della vita. L’interruzione di questo canale ci vieta di attingere a ciò di cui abbiamo profondamente bisogno, a ciò che può guarirci interamente, a ciò che può sanarci da ogni male. Marco ribadisce in questa pagina che tutto il bene che può trasformarci e salvarci passa solo attraverso l’umanità di Gesù. È lui l’unica possibilità, la chiave da “afferrare”.
Il racconto “a incastro” di questa pagina ci presenta il confronto tra due casi diversi eppure simili. La storia prende avvio da un padre disperato che però riesce ad affidarsi, a lasciar fare a quell’uomo da tutti deriso e criticato, nel quale però intuisce esserci qualcosa che nessun altro può dare.
Al centro degli eventi, vero motore di tutto, però si trovano due donne, due storie diverse, due “destini” che si incrociano proprio nell’incontro personale con il Maestro. La prima è una donna matura, sofferente da tanto tempo, che riesce letteralmente a entrare in contatto con Gesù in modo diverso da chiunque altro e a strappare da lui la sua potenza. L’altra una bambina che sta per diventare donna, per la quale lo stesso tempo della lunga sofferenza della prima (12 anni) è un tempo ritenuto ancora troppo breve per abbandonare l’esistenza. La prima non può avere figli, la seconda è una figlia prematuramente perduta. Tutte e due rami aridi dove la morte sembra trionfare due volte, inaridendo alla radice la fonte stessa della vita.
Ma sia nel primo che nel secondo caso la rinascita e la resurrezione trionfa, passando attraverso l’incontro. Non con un semplice “toccare” o “imporre le mani” – il gesto in sé non basta mai – ma attraverso un riconoscimento e un atto di accoglienza interiore che crea un ponte, un canale vero attraverso il quale passa la vita e il bene: la fede in Gesù, unica speranza.
Poche pagine come questa mostrano la fede in azione, come qualcosa che vive e anima le scelte, che si innerva nelle storie e nelle vicende personali. Qualcosa di molto più profondo e radicale che l’adesione ideologica a una visione del mondo. Si vede infatti il mondo a partire dalla propria prospettiva e dai propri bisogni profondi. Se si riesce ad alzare lo sguardo, si vede interporsi tra noi e ogni bene pensabile, una sola Persona che può cambiare tutto.
La barca affonda e Gesù dorme. I discepoli imprecano, quasi bestemmiano: “non ti importa di noi”. Quando tutto sembra perduto, lui si sveglia e, come se niente fosse, ordina alla tempesta: “stai zitta!”. E torna il sereno. È forse una delle più strane pagine del Vangelo di Marco, eppure una delle più dense dal punto di vista simbolico.
Tutto comincia da un comando di Gesù al quale i discepoli non obiettano: “Passiamo all’altra riva!”. Cioè andiamo da chi non ci vuole, da chi non ci aspetta, da chi pensa che siamo non solo inutili, ma persino dannosi. La riva opposta a Cafarnao sul lago di Tiberiade è infatti la riva dei non giudei, dei pagani, quella dove Gesù e i suoi giocano decisamente “fuori casa”, con lo sfavore del pubblico. Le barche, la tempesta, il sonno, i pagani come destinazione sono un “già visto” per chi la Bibbia l’ha letta, almeno un po’.
Sono gli stessi elementi di uno dei racconti più famosi e popolari di sempre: il profeta Giona, quello inghiottito e risputato da un grosso animale marino, forse, paradossalmente, l’elemento meno incredibile della storia. Giona è un profeta destinato ai pagani che, timoroso, fugge dalla sua missione impossibile di predicare a Ninive l’imminente distruzione. Sa infatti che fine fanno i profeti che annunciano sventure o, come diremmo oggi, portano sfiga. Come dimenticare il caso emblematico di Geremia, l’annunciatore della distruzione di Gerusalemme? I profeti come lui sono impopolari e destinati al fallimento, votati a una vita miserabile, emarginati e in costante pericolo. Giona si imbarca e dorme. Cade nel sonno incosciente di chi non vuole assumersi responsabilità.
Poi però è costretto a confessare il suo tentativo di fuga e salva i marinai gettandosi nel mare. È l’unico modo per placare la tempesta. Inghiottito da un pesce enorme, viene portato risputato sulle rive di Ninive, la sua destinazione iniziale. Predica e, incredibilmente, la città più pagana del mondo si converte e si salva.
Ma Giona non è un buon profeta, non solo perché prima ha cercato di fuggire, ma perché ora, dopo aver predicato, è arrabbiato e non capisce perché Dio non mantenga la sua parola. Vive il paradosso del profeta: salvando la città, la parola che aveva annunciato, la distruzione di Ninive, non si compie. E così viene presto dimenticato. Diventa noioso e lamentoso, al punto che persino gli alberi si stancano di dargli ombra. Si sente trattato da Dio in modo pessimo e viene da Lui giustamente rimproverato: salvare vite e ricondurre gli uomini al bene, per Dio è più importante della reputazione del suo profeta e persino della sua parola stessa. Un solo bambino di Ninive vale più della Bibbia e di tutti i suoi predicatori. Ma che centra Gesù con Giona? perché questo accostamento, decisamente voluto dall’evangelista? Perché Gesù è Giona come sarebbe dovuto essere. Il vero Giona.
Giona è il segno e Gesù la realtà. Quello che offre la vita per salvare tutti, affinché la tempesta venga placata, ma non perché è costretto a farlo. Quello che va volentieri a Ninive e coinvolge i suoi nella stessa impresa. Quello che dorme, come Giona, ma consapevole come il contadino della parabola che la potenza del Regno di Dio che si sta scatenando è superiore a quella di ogni tempesta. Gesù è il Giona che prega nel profondo delle tenebre e nell’abisso della morte e risorge il Terzo Giorno per ogni uomo, vecchio, donna, bambino di Ninive e del mondo intero.
Forse i “Giona” refrattari sono invece proprio i discepoli. Sono loro che devono imparare a somigliare al Maestro. Ma lo faranno con sincerità, generosità e persino eroismo solo dopo averlo bestemmiato un po’ e dopo averlo temuto, anzichè amato. Così vanno le cose, strane e imprevedibili, del Regno di Dio.
La predicazione che cerca di spiegare il significato delle parabole di Gesù spesso non coglie l’elemento di provocazione che esse, in vario modo, contengono. Le parabole non sono un modo semplice di spiegare cose difficili, né un linguaggio facile per gli sprovveduti. Le parabole sono pensate e costruite come uno strumento della parola per offrirci la possibilità di vedere le cose in modo diverso e provocare una risposta attiva, sia nella mente, sia nella pratica della vita. Le tre parabole “contadine” di Mc 4 sono esemplari. Siamo invitati a leggerle come un codice che ci introduce a verità nascoste, eppure evidenti davanti a noi.
Ma la chiave giusta è, in ogni caso, la relazione con il loro narratore: Gesù stesso. La differenza tra chi può capire e chi non può capire è quella tra chi rimane a interrogare il Maestro e ad ascoltarlo e chi pensa invece che ci sia di meglio da fare. Il discepolo ha la possibilità di comprendere perché rimane esposto al ciclo continuo dell’apprendimento. Ed è in questo ripetersi nel tempo dell’imparare e cambiare, nella trasformazione progressiva del nostro modo di essere e di pensare, che si trova il vero motore ermeneutico delle parabole.
Esattamente come il contadino che semina, aspetta, falcia e poi ricomincia, così il discepolo, nella vita personale e persino la Chiesa stessa, anche attraverso le generazioni. È qui, nella comprensione della dinamica del mettersi alla scuola di Gesù, nella logica della pedagogia divina, che si può comprendere anche la corretta relazione tra valore della tradizione e necessario cambiamento.
Il fondamentalismo è un virus dell’anima, un atteggiamento mentale sempre più comune che sembra diffondersi sempre di più. Cerchiamo di capire quali sono i sintomi e se siamo stati contagiati.
Chi è un fondamentalista?
Forse tu, che mi stai leggendo. Anche se non lo vuoi ammettere. Proprio tu potresti essere un fondamentalista…
So che quando si pronuncia la parola, di solito si pensa all’estremismo religioso violento. Ma si commette un errore.
Il fondamentalismo non è infatti un problema che viene da lontano e che si infiltra tra noi con i lupi solitari o le cellule dormienti.
Il fondamentalismo è un virus dell’anima, un atteggiamento mentale sempre più comune e che sembra diffondersi sempre di più.
È un po’ come l’apocalisse zombie, dove però al posto degli zombie… ci sono i fondamentalisti.
Ciascuno di noi potrebbe essere stato contagiato.
Tuttavia, state tranquilli. Penso di aver messo a punto un test sicuro, che consiste in una sola, semplice, domanda.
Prima di sottoporvi il mio test alla fine del video, dedichiamo almeno qualche minuto a mettere a fuoco la questione, per chiarire di che cosa stiamo parlando.
Cominciamo col dire che il fondamentalismo non è una problematica esclusiva del mondo islamico o di parte del continente americano, ma è presente, in varie forme, un po’ ovunque.
I primi fondamentalisti che ci verranno in mente saranno probabilmente i “kamikaze” – diventati famosi dopo l’11/9 – e i loro sostenitori, ma ne esistono in realtà anche di meno aggressivi che non si sognerebbero lontanamente, per fortuna, di fare i terroristi.
Il fanatismo, in qualunque forma, c’è e c’è sempre stato, ma il fondamentalismo religioso vero e proprio appare sulla scena della Storia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando diventa molto duro il confronto con lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e si diffonde sempre di più l’atteggiamento razionalista e tecnicista. È proprio quello il tempo in cui Nietzsche proclamava, facendo una parodia dello stesso Vangelo, il famoso annuncio della “morte di Dio”.
Le teorie evoluzionistiche, specialmente il darwinismo, ma anche la critica storica e letteraria applicata alle Sacre Scritture, e poi le varie scoperte della fisica, della biologia, dell’astronomia rendevano l’universo un posto inconsueto, immensamente più vasto e non più con l’uomo al centro di tutto. Si apriva uno scenario sul mondo molto, molto diverso da come veniva tradizionalmente fino a quel momento pensato in verità un po’ da tutti e non solo dalle religioni.
L’economia di mercato e la rivoluzione industriale diedero inizio al processo della globalizzazione, del quale il colonialismo fu solo una prima fase per arrivare fino alle conseguenze attuali. Infine, le teorie filosofiche e politiche, le varie forme di hegelismo, così tutte le ideologie che ne sono derivate hanno cominciato a deridere, sottovalutare, emarginare la religione, a considerarlo solo un pensiero primitivo, tollerabile solo se vissuto in modo esclusivamente privato.
È il famoso fenomeno della secolarizzazione.
Ogni forma di fondamentalismo nasce in risposta a questo fenomeno e si esprime come una reazione di difesa del mondo religioso nei confronti di un mondo secolarizzato, multiculturale, sempre più difficile da comprendere e da accettare, nel quale Dio sembra diventare sempre più assente.
Le religioni in pratica reagiscono per difesa. Davanti a un mondo che sembra mettere in discussione i fondamenti della fede, il “fondamentalista” non accetta di discutere davvero, ma si limita a negare per principio ogni confronto.
Il fondamentalista vuole garantirsi la sicurezza dei propri riferimenti, diventati ancora più importanti in un periodo di grande transizione sociale, politica, economica, culturale. La fede diventa così l’unica fonte di tutte le certezze.
Notate che per il fondamentalista non si tratta solo di difendere la propria Tradizione. Il fondamentalista è diverso dal conservatore. Il conservatore ammette di confrontare il dato rivelato, ciò in cui crede, con le altre scienze, con la storia, la critica letteraria, la fisica, ecc.
Il fondamentalista semplicemente non accetta un confronto che non sia sul suo terreno, non accetta che esista un terreno comune e che il mondo possa essere esplorato anche con la ragione, prima che con la fede.
Il fondamentalista ha l’illusione che sia tutto subito chiaro, tutto evidente, che sia tutto come dice lui, ma, soprattutto, che chi crede o pensa diversamente non meriti rispetto, né il tempo speso a confrontarsi.
Da qui nasce una certa aggressività, una tendenza a disprezzare l’opinione altrui e a cercare di imporre la propria.
Ecco spiegato anche perché il fondamentalista si trova a suo agio specialmente in Internet e sui social, dove tutti diventano facilmente leoni da tastiera e la violenza, per fortuna, si limita a essere verbale.
Ma cerchiamo di comprendere, prima di giudicare. Di solito, il fondamentalista religioso ragiona così: qual è il motivo per cui le cose vanno male nel mondo? Non si mette a considerare i problemi economici, sociali, politici, morali, ma va dritto a una sola risposta: “perché l’uomo di oggi non rispetta Dio e lo ignora”.
Il fondamentalista si sente un difensore dei diritti di Dio. Secondo lui il mondo va male in fondo solo per un motivo: perché ha perso la fede. Ovviamente, la fede come la intende lui.
Tra parentesi: se il mondo abbia davvero perso la fede in Dio e si sia distaccato dalla religione è una questione aperta. Io personalmente non lo credo affatto. La religione non si può sradicare dal cuore dell’uomo. Ma questo argomento merita una trattazione a parte…
Il problema è che i fondamentalisti non tengono in conto le mediazioni, preferiscono ignorare che il mondo sia un posto complicato che segue regole proprie. Perciò mettono subito di mezzo Dio, praticamente in ogni cosa. Vanno dritti al Principio Primo, senza passare da nessun punto intermedio. C’è solo la causa prima e non ci sono cause seconde.
Anche per questo il fondamentalista tende a diventare apocalittico: a vedere subito il grande scontro finale tra le forze del Bene e quelle del Male, a vedere tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. A considerare l’avversario come il “male assoluto”. Ecco perché spesso è fissato col diavolo e lo vede dappertutto.
Il fondamentalista vede tutto il mondo in bianco e nero, ma non è questa la cosa più grave. È ancora più tragico che può arrivare a sentirsi talmente tanto paladino del bene da considerare leciti anche metodi immorali, come, per esempio insultare o seminare odio.
Un’altra caratteristica preoccupante del fondamentalista è che non deve essere necessariamente ignorante o arretrato. Molti fondamentalisti appartengono a fasce istruite. Ci sono medici, ingegneri, avvocati, professionisti.
Il fondamentalista non è nemmeno un nemico del progresso. Non vuole tornare a un mondo primitivo, medievale, come dicono alcuni insultando il medioevo senza saperlo. Anzi, spesso usa molto bene Internet e sfrutta tutti i mezzi che la tecnologia può mettere a disposizione della sua causa.
Il fondamentalista religioso spesso tende politicamente all’estrema destra perché nella sua mente l’ultraliberismo economico è compatibile con il rigorismo morale. Infatti, secondo lui, tutto dipende dalle sole virtù individuali. Che ciascuno personalmente segua la Legge divina, in qualunque modo la intenda, è, nel suo modo di vedere, essenziale perché torni nel mondo la giustizia e la felicità, mentre dà poca importanza al fatto che esistono anche peccati sociali, vere e proprie “strutture di peccato” che non dipendono dalle sole scelte personali.
Tra parentesi, prima che mi diate tutti del comunista: l’espressione “strutture di peccato” l’ho rubata a Giovanni Paolo II e non a Carlo Marx…
Il fondamentalista tende a pensare che il dirigente, l’uomo che riceve responsabilità di potere, debba essere devoto e pio, perché in questo modo sarà più facilmente destinato al successo politico.
Il fondamentalismo ha facile presa persino tra i poveri e i diseredati perché fomenta la convinzione che Dio ricompensi e benedica con la prosperità, anche materiale, chi segue la sua legge, ma non le altre persone.
Si potrebbe dire, in conclusione, che il fondamentalismo offre certezze e le contrappone alle proposte di un mondo che non ne offre più. Tuttavia questa affermazione è ancora un po’ generica, perciò voglio offrire uno schema che spero possa aiutare a chiarirci le idee.
Tutto si può rappresentare come una relazione tra due termini: quello tra la fede e la cultura, compresa anche la cultura popolare (o cultura pop). Da una parte c’è la visione del mondo proposta dalla comunità religiosa alla quale si sente di appartenere. Dall’altra quella, un po’ più impersonale e variegata, di tutti gli altri, del resto del mondo.
Se tra questi due termini non si prende in considerazione un terzo elemento, un terreno “neutro”, un ambito autonomo sul quale i diversi pensieri e le diverse convinzioni possono trovare una convergenza, non ci può essere dialogo perché non ci può essere nessun punto di incontro.
Si finisce per parlare lingue diverse restando chiusi in mondi diversi.
Se le cose vanno così, secondo me, c’è poco da stare allegri.
Ma ecco, finalmente, è arrivato il momento del test.
Se vuoi sapere se sei stato contagiato dal virus del fondamentalismo, rispondi a questa domanda:
Esiste per te un terreno comune tra la fede e la ragione, tra la religione e la società, tra i credenti e i non credenti, tra le tue convinzioni e la cultura in cui sei immerso?
Esiste un mondo autonomo da ogni visione di fede, che (pur creato da Dio per il credente) funziona con leggi proprie che bisogna conoscere e rispettare? Oppure pensi proprio non ci sia nulla che unisce, prima di ogni divisione?
Se per te la risposta è NO, è ovvio che non esiste per te un termine medio per incontrare chi la pensa diversamente da te e comunicare con lui.
Se per te ci sono solo luce e tenebre, se gli altri hanno sempre torto, se tutti, tranne quelli che la pensano come te, sono in malafede, se esistono solo confini netti, muri, frontiere invalicabili, porte chiuse… mi dispiace, ma comunque tu la pensi o qualunque cosa tu voglia credere, sei positivo al virus del fondamentalismo.
In conclusione, però voglio ricordare che non è solo per i credenti il pericolo di diventare “zombie”. Esiste anche una versione laica, non religiosa, del fondamentalismo: si chiama laicismo estremo.
Il laicista estremo si conforta e si rassicura a sua volta nel pensare che tutti i credenti, senza eccezione, siano in realtà dei fondamentalisti, ottusi, che hanno spento il lume della ragione e che sono capaci solo di vedere dogmi e proibizioni dappertutto, cioè, in pratica, dei disadattati culturali totalmente fuori del mondo e che quindi non hanno e non devono avere voce in capitolo sui problemi morali e sociali.
Il laicista estremo, ragiona, se così si può dire, in maniera esattamente speculare al fondamentalista: E quando si domanda: “Qual è il motivo di tutti i mali del mondo? Risponde: “Le religioni!”, ovviamente, e soprattutto il loro influsso sociale.
Per un laicista estremo i credenti, di ogni denominazione, dovrebbero tenersi la religione per sé e praticarla “a casa loro”. Perciò, per fare un esempio, i simboli religiosi, secondo loro, non dovrebbero essere esposti, e i credenti non avrebbero nemmeno diritto a pronunciarsi riguardo ai problemi della società se lo fanno in quanto credenti.
Ma è un atteggiamento altrettanto dannoso, perché alza una barriera invalicabile tra credenti e non credenti, aggravando, nel campo opposto, la tentazione del fondamentalismo, soprattutto in alcuni soggetti più predisposti.
Dall’altra parte, il fondamentalista reagisce sempre più convinto che ogni elemento culturale che non provenga dalla fede o che non derivi direttamente da essa sia illegittimo e demoniaco. E che quindi i simboli religiosi debbano essere non solo esposti, ma addirittura ostentati, imposti, come un’appropriazione di identità, come una bandiera che divide il campo e svetta orgogliosa sulla propria trincea.
Il risultato è una polarizzazione sempre maggiore e una discussione sterile, che non rende un buon servizio né ai valori dello stato laico, né ai simboli religiosi.
La posizione della Chiesa Cattolica al riguardo è stata ben esposta da Benedetto XVI
che parlava di una “sana laicità”.
La sana laicità è il patrimonio comune di credenti e non credenti, il saper accettare la distinzione tra fede e cultura perché esiste l’autonomia delle realtà temporali, ma, allo stesso tempo, difende anche il diritto al credente di esprimersi e di offrire in tutti i campi il proprio contributo.
Non posso aver detto tutto, né posso averlo detto in modo del tutto soddisfacente.
Perciò, fatemi sapere nei commenti qual è la vostra interpretazione del fondamentalismo e soprattutto, se vi interessano questi video, non dimenticate di iscrivervi al canale.
Ogni dogma risponde alla domanda “che cosa credi?”, rivolta a un membro della Chiesa. La risposta è l’esposizione di una formula linguistica. Senza dogmi non esisterebbe nessuna comunità di fede, ma solo dei singoli che possiedono delle convinzioni personali. Una fede che non si può comunicare, cioè che non si può in qualche modo “dire”, infatti, può essere condivisa né rifiutata.
Photo by: @Pinningnarwhals via Twenty20
La parola, ancora una volta, viene dal greco, è una delle sostantivazioni del verbo dokéo, che significa credere, ritenere, e significa perciò originariamente credenza, convinzione, nel semplice senso di opinione.
Ognuno, certo, ha le sue convinzioni e esprime il suo punto di vista, in questo senso, tutti abbiamo i nostri “dogmi” personali.
Tuttavia, quando il termine entrò nel vocabolario cristiano, aveva già acquisito un ulteriore significato. La parola infatti era stata adottata in ambito giuridico e significava ormai una “convinzione documentata”, cioè un’affermazione formalmente deliberata, esposta con intento normativo, cioè, in pratica, un “decreto”.
In questo senso, i dogmi sono perciò da intendere come dei contenuti espressi, delle affermazioni su alcuni argomenti, in questo caso sui contenuti della fede, che sono ritenuti prescrittivi in quanto condivisi, da una comunità organizzata di credenti. In questo caso, la Chiesa esprime apertamente, attraverso un dogma, ciò in cui crede.
Ogni dogma perciò risponde alla domanda “che cosa credi?”, rivolta a un membro della Chiesa. La risposta è l’esposizione di una formula, e in questo caso per “formula” si deve intendere ovviamente non una formula matematica, ma una formula linguistica.
Tutto questo nasce anche da un’esigenza pratica: non basta infatti dire “credo”, bisogna anche che ciascun credente sappia dire “in che cosa” crede, e questo “che cosa” va espresso in modo corretto, cioè definito, in modo che sia riconosciuto e condiviso, non solo da un singolo individuo, ma dall’intera comunità di persone che si riconosce nella stessa fede.
Senza dogmi non esisterebbe infatti nessuna comunità di fede, ma solo dei singoli che possiedono delle convinzioni personali. Una fede che non si può comunicare, che non si può “dire”, non può essere condivisa. Del resto, a ben vedere, è proprio la comunicazione più chiara possibile di un contenuto, qualunque esso sia, che permette a esso di essere abbracciato o, al contrario, di essere rifiutato. Per questo è importante che anche un non credente comprenda correttamente i dogmi, perché almeno sappia e comprenda nel modo migliore possibile “ciò in cui NON crede”.
“Credere” infatti è un verbo transitivo che richiede un oggetto. L’atto di credere richiede un’intenzione della mente. Non si crede “nella fede”, si crede “in qualcosa” perché si ha fede “in qualcosa” o, se volete, “in qualcuno che comunica qualcosa” e questo “qualcosa”, appunto, è il termine della propria fede che richiede di essere comunicato. In questo senso, la fede, in se stessa, non è una risposta. È la fede che offre, semmai, delle risposte.
Se non si è capaci infatti di comunicare – almeno in una certa misura – che cosa si crede, in realtà non si crede in nulla o, il che non fa molta differenza, si è totalmente nell’impossibilità di comunicare e condividere le proprie convinzioni. Una fede senza dogmi è una fede vuota, senza appigli per la mente e la parola, totalmente oscura e inafferrabile, impossibile da proporre, perché una fede che non sa esprimere se stessa non si può né abbracciare né rifiutare.
Perciò, con buona pace di molti, non esiste una fede senza dogmi. A meno che non sia una fede generica, vaga e indeterminata: una fede senza niente in cui credere davvero.
Dunque, ricapitolando: in ambito religioso, attraverso un dogma, cioè attraverso una formula espressa nel linguaggio umano, io sono in grado di esprimere una convinzione, non esclusivamente personale ma condivisa con altri, nella quale espongo il contenuto oggettivo della mia fede affinché possa essere proposto, cioè accettato o, eventualmente, rifiutato. Prendo, in pratica, posizione su ciò che ritengo vero o falso riguardo a Dio, a Gesù Cristo, alla Chiesa e così via. Nello stesso tempo, il dogma segna perciò il confine della mia comunità di appartenenza, perché accettarne o rifiutarne uno cambia sostanzialmente il contenuto della mia fede.
Tanto per fare un’analogia un po’ banale: se mi piace giocare a scacchi, ma affermo che lo scopo del gioco è catturare la regina, in realtà sto giocando a un gioco simile, basato sugli scacchi, ma che non sono più in tutto e per tutto gli scacchi giocati secondo la regola fondamentale che il pezzo da catturare, per vincere, è il re. Sto giocando un mio gioco, che può essere anche divertente, ma che non è più “il vero” gioco degli scacchi, riconosciuto come tale da tutti gli scacchisti del mondo.
Notate che questo vale in maniera analoga per qualunque genere di appartenenza non solo religiosa, ma anche ideologica. Come non posso essere cristiano se non credo alla resurrezione di Cristo così non posso essere buddista se non credo alla reincarnazione. In maniera simile, non a caso, si parla, giustamente, anche di fede politica.
Per comprendere meglio che cos’è un dogma per la Chiesa Cattolica, prendiamo, come applicazione del concetto, i dogmi mariani.
La Chiesa Cattolica afferma su Maria di Nazareth, la madre di Gesù, quattro verità fondamentali, che ruotano intorno a quattro parole della lingua greca:
Maria è:
Theotókos
Kecharitoméne
Aeipárthenos
Infine, Maria è passata attraverso la:
Kóimesis
Perché il greco? perché è stato la lingua del Nuovo Testamento e, ancora prima del latino in occidente, la lingua comune con la quale tutta la chiesa antica esprimeva la propria fede e praticava il dibattito teologico. Insomma, il greco, prima ancora del latino, è la lingua preferita della teologia cristiana.
Questo rifarsi all’antichità e alla tradizione, se si parla di fede, è importante, perché il contenuto della fede non si può inventare. Bisogna partire, per riflettere sulla fede, da che cosa hanno creduto coloro che l’hanno ricevuta in passato e quali espressioni hanno scelto per comunicarla.
Torniamo alle “quattro parole” su Maria, che si possono tradurre nel modo seguente:
Theotókos => lett. “deipara”, cioè Maria è la “Madre di Dio”, colei che ha generato, portato in grembo, partorito e allevato Dio.
Kecharitoméne => lett. “privilegiata” o, come tradotto da Girolamo, “gratia plena”, cioè “colmata (da Dio) di grazia”, che è un po’ meglio del nostro latinismo “piena di grazia” che purtroppo non rende bene l’idea. È il modo in cui viene chiamata dall’angelo Gabriele al momento dell’Annunciazione.
Aeipárthenos => “sempre vergine”, cioè Maria, sebbene madre, è rimasta assolutamente integra nella sua persona fisica.
Kóimesis => “sonno” => dormitio, nel senso di stato di attesa della resurrezione, come quando Gesù disse della figlia di Giairo “non è morta, ma dorme” prima di restituirle la vita. L’espressione ha la funzione di descrivere perciò non uno stato, ma un passaggio verso un altro stato: la Resurrezione.
Ciascuna di queste parole vuole condurre a una definizione, non tanto di chi è Maria di Nazareth presa per se stessa, ma di chi è Maria di Nazareth rispetto a Cristo e rispetto, di conseguenza, a noi, cioè a tutti gli esseri umani. Ognuna di queste parole, esprimendo per il credente che cosa Dio ha compiuto in Maria, esprime perciò anche chi è Gesù di Nazareth e, in definitiva, chi siamo noi. Riferiscono, in parole povere, il contenuto del Vangelo rispetto a Maria e lo definiscono attraverso una frase affermativa, cioè quella che viene chiamata una formula dogmatica o, più semplicemente, appunto, “dogma”.
Rivediamoli in sintesi:
Maria è la Madre di Dio
La maternità non è riferita alla natura, ma alla persona divina. Cioè Maria è Madre di Dio nel senso che è madre della Persona di Gesù, che è la persona del Figlio di Dio, dunque Dio. Come vedete, questo dogma suppone quello della Trinità e quello dell’Incarnazione, sui quali torneremo, e ci mostra in modo evidente come i contenuti della fede siano tutti collegati tra di loro.
Maria ha vissuto ogni istante della sua vita, fin da quando i suoi genitori l’hanno concepita, nella grazia che unisce a Dio
Il che equivale a dire che è stata liberata fin dal primo istante della sua esistenza dal peccato originale. Usando un’analogia, viene fabbricata cioè come una “lampadina già accesa”. In proposito consiglio di dare un’occhiata al mio video precedente sul peccato originale… (cit.).
Maria ha preservato il suo stato di integrità spirituale e fisica in ogni fase della maternità, uno stato, legato alla sua maternità, che ha segnato interamente la sua esistenza terrena
In pratica: Maria ha concepito, ha partorito e ha vissuto fino alla fine la sua maternità in modo verginale, cioè in una maniera assolutamente unica e speciale. Una cosa possibile, da notare bene, solo per opera di Dio, in modo simile al roveto ardente di Mosè che bruciava senza consumarsi, secondo il racconto dell’Esodo al capitolo 3.
Maria, come suo Figlio, è stata assunta in Cielo in anima e corpo
Cioè è passata attraverso una Pasqua di morte e Resurrezione improntata su quella di Gesù, specialmente nel suo esito finale. Maria vive pienamente fin da ora la stessa condizione del Risorto, cioè lo stato futuro promesso a Dio per tutta l’umanità.
Questi quattro dogmi sono profondamente legati tra di loro ed insieme vogliono esprimere una sola verità: Maria rappresenta tutti i credenti. Maria è, insieme a Gesù, la primizia dell’umanità nuova. La “nuova” Eva.
Lei, infatti, è la prima discepola di Gesù a compiere insieme a lui tutto il suo tragitto. E lo ha fatto per prima in forza del suo dono e della sua missione: la maternità di Gesù.
In qualche modo, semplificando, lei corrisponde a noi. Lei è stata già ciò che noi siamo e noi saremo ciò che lei è. Proprio questo suo vantaggio, che la rende unica, la rende anche profondamente vicina a tutti. Il suo essere stata privilegiata, colmata di grazia, permette che tutti gli esseri umani possano esserne colmi.
Guardiamo infatti ancora meglio come si compongono, in relazione a Gesù, che rimane il centro della fede cristiana, queste affermazioni sulla madre di Dio:
Maria, in quanto madre di Gesù, è nello stesso tempo figlia di Dio e sua genitrice. “Figlia del suo Figlio”, come dice Dante con un’espressione straordinaria. Questo è avvenuto gratis, da parte di Dio, e si è realizzato grazie alla fede operosa con cui Maria ha risposto ai doni gratuiti che ha ricevuto da Lui. Maria, cioè, ha collaborato attivamente ai doni straordinari ricevuti, come dovrebbe fare ogni credente.
Maria ha ricevuto doni unici e speciali, una completa integrità nel corpo e nello spirito, che non era indispensabile. Dio e la sua opera potevano benissimo farne a meno. Che Maria li ricevesse era conveniente, ma non strettamente necessario.
Ma proprio per questo a maggior ragione sono doni perché non “servono” a qualcosa, ma sono espressione della bontà gratuita di Dio verso di lei e, di conseguenza, verso l’umanità intera. Maria è un segno che rivela un Dio che fa doni grandi semplicemente perché li vuole fare.
Duns Scoto argomentava infatti che se Dio può fare un bene più grande, lo vuole, e se lo vuole, lo fa. E così ha fatto con Maria, che è come un segno di vita e di speranza per tutti gli esseri umani.
E, infine, l’ultimo dono, che porta a compimento gli altri: Maria partecipa pienamente del destino di Gesù in quanto lo segue subito, alla fine del suo viaggio in questa vita, anche nella Resurrezione e Ascensione al Cielo, cioè nella nuova realtà che attende tutta la creazione.
Ricordo ancora, quando ero ragazzo, il mio catechista che mi spiegava tutto questo dicendo: “Maria, una povera e semplice ragazza di un paesino sperduto senza importanza, ha ricevuto in anticipo i doni che Dio ha riservato per tutti noi”. Non so perché, ma queste parole mi accendono ancora il cuore.
Tutto questo, cioè il fatto che Maria ha ricevuto doni straordinari di grazia, che ha vissuto il Vangelo fino in fondo, e che per questo partecipa della stessa condizione attuale del Figlio Risorto, si può riassumere in uno dei titoli più belli con cui la tradizione della Chiesa invoca Maria chiamandola, “Maris Stella”, cioè “stella polare”.
La stella polare era un punto di riferimento per la navigazione dei marinai. Per i credenti, gli esseri umani sono marinai senza bussola nell’oceano dell’esistenza, ma Maria è un punto fermo, una garanzia di speranza, una promessa di felicità che supera ogni nostra aspettativa e ogni nostro merito. Maria indica la rotta sicura del Vangelo.
Ovviamente, ci sarebbero ancora un’infinità di cose da dire, ma mi aspetto il vostro contributo nei commenti.
Anche se è l’origine di infinite discussioni, il peccato originale è uno dei dogmi fondamentali della fede Cattolica.
Ma credo che sia anche uno dei più equivocati e meno compresi. In questa pagina, cerchiamo di chiarire almeno l’essenziale.
Anche se è l’origine di infinite discussioni, il peccato originale è uno dei dogmi fondamentali della fede Cattolica.
Ma credo che sia anche uno dei più equivocati e meno compresi.
In questo video cercherò di presentarlo nel modo più chiaro e veloce possibile.
Premetto che non è possibile dire tutto ciò che andrebbe detto, soprattutto in breve tempo.
Posso però cercare di evidenziare il nocciolo della questione e offrire un esempio che secondo me, letteralmente, aiuta a fare un po’ di… luce.
Se volete scoprire perché ritengo l’esempio che vi farò così “illuminante”, armatevi di pazienza, e seguitemi fino alla fine.
Occorre innanzitutto mettere in chiaro una cosa: il racconto della caduta dei progenitori, la storia di Adamo, Eva, l’albero e il serpente, che troviamo in Genesi al capitolo 3, non contiene, in sé stesso, la dottrina del peccato originale.
Quello che invece è alla base di quanto insegna la Chiesa lo troviamo in quel fondamentale scritto di Paolo di Tarso conosciuto come la Lettera ai Romani:
Se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
[Rm 5, 17-19]
Fate caso a come Paolo presenta le cose. Non propone un racconto, ma fa un discorso che mette a confronto due racconti e, dunque, due personaggi fondamentali: Adamo e Cristo.
Notate soprattutto la struttura a corrispondenza binaria, cioè a coppie ripetute di parole, che si possono estrarre dal testo e mettere in evidenza con una tabella.
Le espressioni “Uno solo” in relazione a “tutti”, ribadita due volte, indica una relazione che lega l’umanità a questi due personaggi, appunto Adamo e Cristo.
UNO SOLO
Adamo
Cristo
TUTTI
morte
Vita
colpa
Giustizia
disobbedienza
Obbedienza
peccatori
Giusti
Ecco una delle idee più importanti, se non la più importante del Nuovo Testamento, riassunta in uno schema: da Adamo viene la morte, da Cristo la vita. La Vita raggiunge tutti gli uomini per mezzo di Gesù, il Cristo.
Paolo, infatti, parte da un presupposto: la croce di Gesù non è stata solo un atto eroico o un esempio morale, ma un evento potente che ha trasformato tutto.
Se Cristo ha offerto la sua vita per tutti gli esseri umani, allora tutti gli esseri umani, tutti i figli di Adamo – passati, presenti e futuri – avevano bisogno che Cristo offrisse la vita per loro.
Notate come Paolo intende questo “bisogno”. È una necessità radicale, inerente al fatto stesso di possedere la natura umana, di essere generati in tale natura, di appartenere, se vogliamo dirlo con il linguaggio della Bibbia, alla stirpe di Adamo.
Nel mettere in evidenza questo “bisogno”, cioè questa esigenza di sopperire a una “mancanza” essenziale, la Chiesa parla di “peccato”, una parola che non va intesa nel senso di una colpa personale – nessuno infatti nasce colpevole – ma nel senso di una relazione della quale non si può fare a meno. In definitiva si dice che tutti nascono predisposti a un collegamento indispensabile e, dunque, mancanti di qualcosa. In altri termini: nessuno può bastare a sé stesso. Ci serve l’altro. In questo caso l’Altro, con la A maiuscola.
Secondo l’annuncio cristiano, Cristo è morto e risorto anche per tutti coloro che vengono o che devono venire ancora al mondo. Dunque, quando si dice che “tutti nascono nel peccato originale” si dice in realtà che tutti gli esseri umani hanno, fin dall’inizio della loro esistenza, la necessità di una speciale relazione con Dio che possiamo chiamare in tanti modi, ma che il Nuovo Testamento chiama “redenzione” o “salvezza”.
Paolo vede in Cristo, specialmente nella sua morte e resurrezione, l’altro capo di questa relazione necessaria. Tutti gli umani perciò non solo hanno una qualche convenienza, ma hanno proprio un bisogno vitale di entrare in relazione con Cristo: ecco il “peccato originale”. La parola peccato, in riferimento agli innocenti, perciò non è usata qui non nel senso comune del termine, ma in senso analogico. Non si parla di una mancanza morale, ma di una mancanza esistenziale.
Come un neonato ha bisogno degli adulti per sopravvivere, perché nasce fragile e impreparato ad affrontare da solo la vita, così ogni essere umano nasce spiritualmente fragile, con un bisogno profondo di Dio per trovare la forza di fare il bene, di ottenere il dono di una vera felicità, di ricevere la vita eterna.
Su tutte queste considerazioni di Paolo, si innesta una riflessione, portata a fondo soprattutto da Sant’Agostino: qual è la causa di questa condizione di bisogno? Dio, nella sua bontà, non poteva dare all’uomo la vita, la grazia, la vita eterna fin da subito? senza il bisogno che venisse Cristo, senza che si consumasse tutto il dramma della redenzione?
La risposta del dogma è che Dio, in realtà, lo ha fatto, perché nella sua bontà non poteva non farlo. Ha dato all’uomo tutto. Fin dall’inizio ha creato l’uomo buono e perfetto, cioè senza alcun bisogno inappagato, e lo ha riempito di doni speciali, superiori, tra i quali quello della sua amicizia e dell’immortalità. Doni cioè che vanno oltre – badate bene, bisogna sottolineare oltre – i doni naturali della vita biologica e dell’intelligenza. Ma, per qualche motivo l’uomo ha perso questi doni, perché Adamo, cioè qualcuno che ci contiene tutti e ci rappresenta tutti, ha voltato le spalle a Dio e ha perso volontariamente la sua amicizia. Questo però, non possiamo non notarlo, non è solo un evento concluso nel passato. È un evento quotidiano, che si ripete nella vita di tutti. Il male si propaga intorno a noi e domina, in noi e su di noi, spesso causato da noi stessi.
Adamo, infatti, per un ebreo come Paolo è l’immagine di Dio impressa in ogni uomo. È come se il primo uomo contenesse in sé stesso l’umanità intera, di ogni tempo. Per usare un’altra immagine: per Paolo, Adamo è come un calco sul quale ogni essere umano è stato fatto. Portiamo perciò i pregi, che vengono da Dio, e i difetti, che vengono dalla caduta, alla quale assistiamo tutti i giorni, di questo stampo originario.
La dottrina del peccato originale perciò non è una dottrina triste e pessimista. Non dice che ogni uomo è condannato dalla nascita. Non dice che l’uomo sia cattivo e destinato a compiere il male, ma tutto il contrario.
L’aspetto più importante del dogma ci dice che Dio, nella sua bontà, ha creato un ottimo stampo, ma poi, dopo che questo si è reso difettoso a causa della libertà dell’uomo usata male, ne ha fatto subentrare uno migliore. Ora gli uomini possono rinascere e vivere modellati su un prototipo diverso.
Cristo è il secondo Adamo. L’Adamo 2.0.
Su questa nuova matrice, annuncia Paolo, l’umanità è come se avesse la possibilità di venire “ristampata”. L’umanità indebolita e malata può guarire, può tornare a essere ciò che è stata chiamata a essere.
Il fatto che il mondo sia pieno di conflitti, che sia ferito, che il male dilaghi, non è affatto un mistero ed è sotto gli occhi di tutti. Il dogma afferma che Gesù è la medicina del mondo e che il mondo può guarire. In lui gli esseri umani ricevono la possibilità di imparare a usare meglio la loro autonomia.
In altre parole, la storia raccontata da Genesi viene interpretata come una figura speculare, rovesciata, di quanto raccontato dai Vangeli. La vicenda simbolica di Adamo viene letta alla luce della storia reale di Cristo, cioè della sua Passione, Morte e Resurrezione.
Cristo, perciò, secondo Paolo, è un nuovo Adamo, un nuovo inizio per un’umanità nuova, trasformata, destinata anziché al dolore e alla morte, alla felicità e alla vita.
Su questo confronto tra due diversi “Adamo” si basa la dottrina detta del “peccato originale”.
In sintesi, ecco come si potrebbe formulare quanto detto, portando fino in fondo il discorso di Paolo:
Adamo è come un Cristo fallito. Cristo è un Adamo riuscito.
Adamo, in un certo senso, rappresenta una mediazione originaria che non ha funzionato, che è andata “male”. Le cose non sono andate come dovevano andare. Questo “fallimento” è l’origine (da qui il termine “originale”) di tutti i problemi della condizione umana, a cominciare dalla sua fragilità di fronte all’esistenza e di fronte al bene.
L’ultima, straordinaria, conseguenza della dottrina del peccato originale, è che la condizione umana – rimodellata sul prototipo di Cristo – è superiore alla precedente. Il secondo Adamo, l’Adamo 2.0 non è solo una sostituzione. È un upgrade. Per questo la caduta del primo Adamo, raccontata da Genesi, viene definita la notte di Pasqua, una “felice colpa”, cioè una caduta fortunata, perché può essere letta come l’occasione per il più vantaggioso dei cambiamenti. Come quando il premio della polizza di un’assicurazione è più remunerativo del bene perduto.
In conclusione: ogni dottrina cristiana, ogni dogma, non va inteso come un’imposizione, ma come un punto di riferimento. Non può esistere una fede senza punti di riferimento. Sarebbe un credere vuoto. Ogni dogma cerca di dire, con le parole, chi è Gesù, detto il Cristo. Ogni definizione della fede espressa con il linguaggio umano – un dogma non è altro che questo – è un modo con cui il credente parla di Gesù, per esprimere ciò che crede veramente di lui.
Se avete resistito fin qui, allora vi siete meritati il mio esempio “illuminante”.
Se invece avete già capito tutto, allora quello che farò sarà per voi perfettamente inutile. Però spero che sia utile, soprattutto per i miei colleghi che lo vogliono spiegare ai più piccoli…
Allora, abbiamo una… lampadina. Perché viene fabbricata una lampadina? Ovvio, prof, per fare luce!
Però, c’è dell’altro. Senza la corrente elettrica, una lampadina non avrebbe molto senso di esistere. Riempie uno spazio vuoto, ma non serve a granché.
Questo perché le lampadine sono pensate, fin dall’inizio in relazione alla corrente elettrica.
Grazie alle lampadine, per esempio, possiamo vedere con gli occhi qualcosa, in questo caso, appunto, l’energia elettrica, che altrimenti rimarrebbe invisibile.
Possiamo dire che le lampadine sono pensate come amiche inseparabili dell’energia elettrica.
Allo stesso modo, ecco l’analogia, l’uomo è fatto per essere amico di Dio. Nell’uomo, persino Dio invisibile può rendersi visibile. Non significa anche questo, infatti, essere “immagine di Dio”?
Il dogma dice – seguitemi attentamente, perché ora ripeto il concetto in altro modo – che Dio, che sa fare le cose bene, ha pensato e creato l’uomo non come una lampadina spenta, ma come una accesa, collegata a quella fonte di vita, di energia, che è Lui stesso. Cioè l’uomo è stato fatto buono e amico di Dio.
Ma gli esseri umani sono decisamente più complicati di una lampadina, mi direte.
E avete ragione. C’è la libertà, che è una faccenda seria. È come se tutti noi avessimo in mano l’interruttore di noi stessi.
Ma non basta neanche avere un interruttore. Per qualche motivo misterioso, perciò, qualcosa si è interrotto tra la sorgente dell’energia e la lampadina, ancora prima dell’interruttore.
E allora? San Paolo dice che Dio, per mezzo di Cristo, ha collegato la spina! E che ciascuno di noi, allora, finalmente – perciò con il suo aiuto e mai senza – può di nuovo “accendersi”, diventare ciò che è chiamato a essere nel progetto di Dio.
Rimaniamo nell’analogia e aggiungiamo un elemento di sorpresa, un ultimo colpo di scena. La “buona notizia” non è solo che è stato ripristinato il collegamento, ma che adesso anche la lampadina non è più come quelle di prima.
Ora è una di quelle di seconda generazione, che, per esempio, può restituire miliardi di colori, cambiare di intensità e tonalità, ed essere comandata con la voce. Una lampadina, appunto, 2.0.
Spero di non avervi annoiato. Ma i concetti complessi spesso hanno bisogno di immagini, anche se non sono mai perfette.
Se pensate che abbia omesso qualcosa di importante o sapete presentarla meglio o se avete, come è normale, obiezioni, fatemi sapere nei commenti.
La religione fa leva sulle nostre paure? Secondo alcuni, decisamente. Anzi, sarebbe la chiave del suo potere. La paura dell’Inferno, la paura del giudizio, la paura, appunto, dell’apocalisse… E se invece i discorsi apocalittici della Bibbia non parlassero della fine del mondo?
La religione fa leva sulle nostre paure? Secondo alcuni, decisamente. Anzi, sarebbe la chiave del suo potere. La paura dell’Inferno, la paura del giudizio, la paura, appunto, dell’apocalisse…
Non c’è dubbio, del resto, che il potere usi spesso la paura per manipolarci e sottometterci, nel passato come nel presente.E purtroppo, molta propaganda politica e religiosa, funziona ancora così.
In un tempo in cui sembra dominare la paura, in cui facciamo fatica a immaginare il futuro, persino la religione, che dovrebbe darci speranza, sembra non aiutarci. Almeno questa, per molti, è la prima impressione.
Prendete per esempio il famoso discorso “apocalittico” di Gesù nel Vangelo di Marco al capitolo 13: si parla di sconvolgimenti storici: guerre, terremoti, carestie, dolori; delle relazioni umane stravolte e pervertite, dove persino i figli mettono a morte i genitori e i genitori i figli; e per non farsi mancare nulla, persino di catastrofi cosmiche: la luce del sole che si spegne, luna che sparisce, le stelle che cadono dal cielo. C’è poco da stare allegri.
Io credo però che ci sia un problema: abbiamo capito male, molto male, il significato vero del messaggio apocalittico.Su questo, e su molte altre cose che riguardano la religione, soprattutto quella cristiana, esiste, almeno per chi la conosce poco, un grande frainteso.
Cerchiamo perciò di approfondire.
Cominciamo dalla parola “apocalisse”.
La parola greca, Apocàlipsis, da cui il nostro “apocalisse” letteralmente, significa rivelazione e non ha niente a che fare con la fine del mondo.
La parola indica nella Bibbia un intervento di Dio che segna la differenza tra il passato e il futuro. Dio si manifesta, interviene, agisce e tutto cambia.
In questo senso, Gesù si può considerare un predicatore “apocalittico”, perché annuncia un grande cambiamento in arrivo: il Regno di Dio. Con l’avvento del Regno, tutto è destinato a trasformarsi profondamente: niente sarà più come prima.
L’attesa di un intervento di Dio che trasforma le cose e, soprattutto, ristabilisce la giustizia dove non c’è, non è, per chi lo attende, un elemento di paura, ma di speranza.
Ogni riferimento all’apocalisse, perciò, è un richiamo alla speranza di un futuro migliore.
Ciò non toglie però che il raggiungimento di questo futuro passi attraverso un evento drammatico, un passaggio critico, per niente facile e scontato. Ed è forse questo l’aspetto dei discorsi apocalittici che suscita inquietudine.
Il punto su cui riflettere però è che questi eventi drammatici non sono futuri, sono ben presenti. Fanno parte del nostro oggi. Li vediamo ripetersi nel nostro quotidiano. Quindi non sono una minaccia, sono una compagnia, una presenza continua alla quale dobbiamo cercare di dare un senso.
I discorsi apocalittici di Gesù usano perciò un linguaggio molto preciso, lo stile profetico, per illuminare il senso del presente e dare conforto a chi crede in Dio. In particolare, nel Vangelo, Gesù parla di come sarà difficile la vita di chi crede in lui, di come sarà complicato a volte manternere la fede e testimoniare il Vangelo, ma di come, nonostante tutto, alla fine tutte le sue promesse saranno mantenute.
Proprio per fare un esempio, torniamo al capitolo 13 del Vangelo di Marco. Non è di facile comprensione, a una prima lettura. Per interpretarlo, dobbiamo mettere in chiaro alcuni elementi-chiave.
Per prima cosa, il contesto.
Gesù è in forte polemica con la classe politica e religiosa che controlla il Tempio. Gesù ha detto che ormai è una “spelonca di ladri”, un luogo sfigurato, profanato, in un certo senso, ucciso nel suo significato, dall’avidità e dal potere.
Nel grande Tempio ormai si adora il denaro, non l’unico vero Dio, e il luogo sacro non è più al servizio del popolo, ma al servizio dei potenti che manipolano e sfruttano le folle che vi si recano in buona fede. Lo scontro è stato molto, molto duro e Gesù, estremamente deluso, si è allontanato dal Tempio dopo averne annunciato la distruzione.
Costruito “pietra su pietra”, il Tempio di Gerusalemme non è eterno. Perciò “pietra su pietra” sarà demolito.
Ora, ecco la seconda cosa da mettere in evidenza.
Per Marco esiste una relazione stretta tra ciò che accade al Tempio e ciò che sta accadendo a Gesù.
Così come il Tempio è stato, in un certo senso, assassinato, ora toccherà a Gesù essere preso, condannato, profanato e messo a morte, praticamente per gli stessi motivi: Gesù infatti chiede, come gli antichi profeti, di tornare a un culto e a una religione puri, disinteressati, sinceri e profondi.
Ma a Gerusalemme, non sono pronti per questo cambiamento.
Per questo, il suo messaggio è destinato ora a diffondersi nel resto del mondo.
I discepoli si avvicinano per chiedere a Gesù come e quando il Tempio sarà distrutto proprio, ci dice Marco, “mentre stava guardando verso il Tempio”.
Il discorso apocalittico viene pronunciato infatti tutto sul Monte degli Ulivi, la collina che mostra una veduta panoramica di Gerusalemme, sulla quale si stagliava imponente la struttura del Tempio [clip]. Era una vista mozzafiato.
Perciò tutto il discorso apocalittico comincia dal Tempio e mantiene sempre un riferimento al Tempio. Dobbiamo anche noi averlo sempre come davanti agli occhi mentre ascoltiamo tutto il discorso del capitolo 13.
Ricordiamo che il Tempio per gli ebrei non era un luogo sacro qualsiasi, come poteva essere un tempio per un greco o un romano.
Il Tempio era unico e insostituibile, perché era un’immagine del cosmo, creato, ordinato e sostenuto da Dio. Un posto unico al mondo, una miniatura dell’universo intero, in cui Dio abitava tra gli uomini e si lasciava incontrare da loro. Non esisteva niente di sacro e di più importante. Solo pensare il Tempio profanato o distrutto, equivaleva a pensare a un mondo decapitato, un corpo ferito a morte, un motore elettrico al quale venga staccata la spina. Per un ebreo di quel tempo, tutto il bene del mondo dipendeva dal Tempio di Gerusalemme. Se il il Tempio finisce, il mondo cade in rovina, come un castello di carte, senza più un sostegno. Senza Tempio, tutto il mondo si spegne. Senza il Tempio, tutto il mondo muore. Esiste perciò una relazione simbolica vitale tra il Tempio e il mondo.
“L’abominio della desolazione (o, meglio, della devastazione)” è un’espressione famosa, già usata anche nel libro di Daniele, che si riferiva alla statua di Zeus che il re Antioco IV Epifane aveva fatto collocare nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione perciò richiama il simbolo di profanazione e dissacrazione per eccellenza. Ma, come abbiamo detto, il Tempio è stato già profanato. Sotto la facciata del sacro, è diventato uno strumento di potere economico, un luogo di commercio e di oppressione dei poveri, “una spelonca di ladri”. È come se un cancro lo avesse infettato, condannando, nello stesso tempo, tutto il mondo. Se il Tempio è profanato e corrotto, infatti, il mondo stesso si ammala e si corrompe.
Il destino del Tempio è segnato. Dato che ormai è stato profanato e non si lascia riconsacrare perché dominato dall’ipocrisia, non potrà reggere e presto sarà disfatto pietra per pietra. E proprio perché è stato sconsacrato, ora deve essere abbandonato in fretta, precipitosamente, scappandone via lontano, come si fuggirebbe da una centrale nucleare uscita fuori controllo e contaminata da radiazioni mortali. La distruzione del Tempio è la peggiore disgrazia possibile che possa colpire l’umanità.
Per salvare l’umanità bisognerebbe ricostruire il Tempio, rifondarlo da capo.
L’unico modo di salvare il mondo equivale così, sul piano simbolico, a ricostruire in qualche modo il Tempio ormai distrutto moralmente e che perciò lo sarà, presto, anche fisicamente.
Ma tale rifondazione non avverrà come tutti si aspettano: il Tempio ricostruito sarà Gesù e i suoi discepoli con lui. Tutto cadrà, tutto il mondo morirà, ma lui no, lui resterà, ritornerà, risorgerà. E i suoi discepoli con lui, uniti in uno stesso destino, come pietre del nuovo Tempio.
Ecco allora il cuore del messaggio evangelico: la distruzione, prima morale e poi materiale, del Tempio, è anche un’immagine del destino riservato a Gesù, che sarà insultato, condannato e crocifisso come un malfattore. Gesù, dal canto suo, è presentato come qualcuno che vede l’immagine di se stesso esattamente riflessa nel Tempio. La profanazione del Tempio, una profanazione che travolge il mondo, coinvolge così in qualche modo Gesù stesso. E Gesù lo dice più volte apertamente. Deve farsene interamente carico, come un eroe che prende tutto il male su di sé, lasciando che sia Lui a perire insieme al Tempio. Anche per questo sarà anche accusato di voler distruggere il Tempio e ricostruirlo in tre giorni, come sappiamo.
Il Tempio è, in qualche modo, un richiamo diretto alla sua sorte: dato che è stato distrutto nel suo significato, privato di senso da chi doveva esserne custode, ora deve essere rifondato. Distrutto, deve essere ricostruito. Proprio perché abbattuto, perché il mondo viva, deve risorgere.
Ma ecco la parte più sorprendente: non sarà più come prima. Il Tempio risorgerà e restituirà la vita al mondo non come un edificio fatto di pietra, ma nel corpo stesso di Gesù. Non solo nel suo corpo individuale, ma in quel suo corpo che è la Chiesa.
Terzo punto da chiarire: il “quando e come”.
Gesù non si sottrae a una risposta diretta alla domanda: “qual è il giorno e l’ora?”. Risponde che non spetta saperlo, cioè deciderlo, se non al Padre”. Qui non è in questione la conoscenza, ma la fiducia. Per quanto riguarda il momento culminante di tutta la storia umana, bisogna lasciar fare alla volontà del Padre, alla quale, Gesù per primo si affida.
Fissare date è tempo perso. Bisogna fissare solo la propria fede e la propria speranza nel Padre.
Gesù, del resto, non sta parlando neanche, come abbiamo detto, della fine del mondo, ma, in riferimento a se stesso e al Tempio, e dunque in riferimento, appunto, al mondo, del suo scopo, del suo significato ultimo.
L’apocalisse infatti non è la fine del mondo, l’apocalisse è il fine del mondo: la rivelazione, appunto, del suo scopo, del suo senso. Se c’è uno spoiler, cioè un finale da sapere in anticipo, beh, secondo il Vangelo di Marco questo è solo il trionfo finale di Gesù e del suo messaggio.
Quarto e ultimo chiarimento: le brutte notizie.
Le guerre, i terremoti, l’odio e le menzogne propagandistiche – o, come si dice oggi – le fake news, così come i profeti altrettanto “fake”, cioè altrettanto fasulli, che le sostengono, non sono altro che il telegiornale, la cronaca quotidiana, la storia ordinaria dell’uomo.
Tutto il male che conosciamo non è la fine e non preannuncia la fine. Sono piuttosto “l’inizio dei dolori”.
L’espressione greca originale si riferisce ai dolori del travaglio del parto, intensissimi, ma annunciatori di vita.
In altre parole, Gesù sta dicendo: non abbiate paura: tutto il mondo, l’universo intero, soffre, ma come soffre una donna per il travaglio del parto. Anche San Paolo lo dirà in modo esplicito. Da tutto questo dolore e questo male nascerà qualcosa. I discepoli sono chiamati a guardare tutti i mali che opprimono lo scorrere della storia presente proprio come i segni di un profondo cambiamento, ma con una certezza: tutto è per il bene, tutto avviene per preparare un mondo migliore. In questa chiave, la gioia di ciò che sta per arrivare, una nuova vita, è più grande di ogni dolore precedente.
È un messaggio, perciò, di profondo ottimismo che non perde il contatto con la realtà, che non nasconde o minimizza le difficoltà del presente. Perché però tale speranza funzioni, è necessario un atto di affidamento totale e incondizionato a Dio, riconosciuto e chiamato come Padre. Per questo Gesù dice: “solo il Padre conosce il giorno e l’ora”. Il “sapere” nella Bibbia è connesso quasi sempre con il possedere e il potere. La conoscenza è una forma di possesso, perciò è anche una forma di appartenenza. Dunque dire “nessuno lo sa, nemmeno il Figlio” equivale a dire che nessuno dispone di quel giorno se non Dio Padre, e l’unico modo per affrontarlo o prepararsi ad esso è un gesto di fiducia totale e assoluta, come quella che Gesù stesso, in quanto Figlio, avrà nei confronti del Padre, nel giorno sua Passione.
Infine, le catastrofi cosmiche, quelle che più fanno pensare alla fine di tutto: “il sole si oscurerà… allora vedranno venire il Figlio dell’uomo”.
Le catastrofi cosmiche, nel linguaggio dei profeti, hanno anche una chiave di lettura sociale: il sole, la luna e le stelle nella Bibbia sono simboli usati anche per indicare, come nel libro di Daniele, le grandi potenze politiche, ideologiche, economiche o sociali, del mondo. Tutto ciò che sembra un potere eterno e indistruttibile, in realtà non lo è, a cominciare da nazioni, imperi e re. Tutto passerà, tutto ha un tempo stabilito. Ma il figlio dell’uomo resterà, affermandosi alla fine come l’unico solido e definitivo punto di riferimento di tutto: l’unica cosa che resta quando tutto crolla. Perciò, per concludere: dobbiamo aver paura dell’apocalisse? Assolutamente no, l’apocalisse, la rivelazione del fine di tutte le cose, è un messaggio che vuole vincere ogni paura, ed essere un invito definitivo alla fiducia e alla speranza.
Agli autori della Bibbia piacciono i simboli. Perciò si parla spesso dello Spirito di Dio paragonandolo al fuoco o al vento. Ma il simbolo preferito da Giovanni è un altro: l’acqua.
Photo by @5byseven via Twenty20
Ricordate le famose parole di Gesù?
“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”.
Spiegare che cosa significa acqua viva è facile: in greco è l’acqua che scorre da una fonte. Cioè, per farla breve, non è l’acqua del pozzo e non è l’acqua in bottiglia.
Ma le cose sono un po’ più complicate di così. Per capire davvero che cosa significano queste parole, dobbiamo fare un passo indietro.
La festa di Pentecoste, come la festa di Pasqua, è una festa ebraica che nel cristianesimo ha cambiato significato. Tuttavia, notate bene, “il grande giorno della festa” al quale si riferisce l’evangelista Giovanni, la festa durante la quale Gesù ha gridato queste parole nel Tempio, non è la Pentecoste, ma la festa di Sukkot, cioè la Festa delle Capanne.
La Festa delle Capanne è una delle feste ebraiche più antiche e importanti. Evoca il tempo del viaggio di Israele nel deserto dopo la fuga dall’Egitto, nella precarietà, sotto le tende, ma fin dalle sue origini è sempre stata collegata profondamente anche all’agricoltura e al raccolto, temi inseparabili dall’idea primordiale della fecondità e della vita.
Era perciò una festa di ringraziamento e di propiziazione per i prodotti della terra, legata alla simbologia dell’acqua, perché la terra, senz’acqua, è sterile. Insomma, si invocava il dono dell’acqua perché da essa dipendeva la vita, due cose inseparabili anche per Israele e la sua storia, nel deserto come nella Terra Promessa.
Ai tempi di Gesù la festa delle capanne durava sette giorni. Ciascun giorno si faceva una processione. Visualizziamo che cosa succedeva. Un sacerdote, seguito da molta folla, si recava alla fonte di Ghìhon, a sud-est rispetto alla collina del Tempio, poco fuori Gerusalemme.
Lì, mentre i presenti cantavano in coro “Attingerete con gioia acqua alle sorgenti della salvezza”, il sacerdote riempiva d’acqua una brocca d’oro e poi la conduceva insieme alla folla verso il Tempio, entrando in città da quella che si chiamava, appunto, “la porta dell’acqua”.
Tutti portavano nella mano destra rami di palma legati a ramoscelli di mirto e salice, in ricordo della costruzione delle capanne nel deserto. Nell’altra mano stringevano un cedro, o un limone, segno del raccolto. Tutto avveniva in un clima di gioia e festa, con canti, musica e danze.
La processione entrava infine nel Tempio e raggiungeva il cortile più interno, di fronte al Santuario.
Il sacerdote, sempre seguito dalla folla, continuava girando intorno all’altare degli olocausti. Il settimo giorno della festa, l’ultimo, il giro si ripeteva sette volte.
L’altare dei sacrifici era davvero grande, ma proprio grande: non pensate all’altare di una chiesa. Per farsi un’idea, era una roba alta sette metri, su una base quadrata di almeno venticinque.
Il momento culminante arrivava quando il sacerdote, salita la rampa che portava in cima all’altare, versava l’acqua della brocca d’oro in un imbuto d’argento. L’acqua scorreva così dall’altare fino a terra, mescolandosi al sangue dei sacrifici.
Ecco, è esattamente questo il momento in cui, secondo Giovanni, Gesù si alzò e prese la parola.
Così come ha già detto in altre pagine dello stesso Vangelo di essere l’agnello pasquale, la manna, il serpente, ora Gesù sta dicendo di essere lui la vera fonte. Attenzione: non l’acqua, ma la fonte dell’acqua.
L’acqua è “viva”, cioè è acqua di sorgente, proprio perché viene dalla fonte, cioè da Lui. E quest’acqua è lo Spirito. Giovanni lo dichiara apertamente. Anche se nella predicazione si preferisce più spesso parlare di vento e di fuoco, facendo riferimento alla Pentecoste secondo Luca, l’associazione simbolica tra acqua e spirito era invece, per un ebreo del tempo, molto più naturale di quanto non lo sia per noi oggi. La stessa parola nefesh, che traduciamo normalmente come “spirito” era in realtà anche un sinonimo di gola, e quindi di sete. Nello stesso tempo il simbolo dell’acqua richiama, insieme allo Spirito, la rivelazione di Dio in Gesù. Lo Spirito che scaturisce da Gesù è inseparabile dalla sua Parola e dunque, per Giovanni, da Gesù stesso perché lui, Gesù, è “la Parola fatta carne”.
L’acqua nella Bibbia è associata anche alla Torah, la Legge di Dio. Chi ne beve, cioè la mette in pratica, vive. Dunque da Gesù scaturisce lo spirito-acqua perché lui stesso prende il posto della Legge. Il “comandamento nuovo”, infatti, non è altro che Gesù stesso colto nell’atto di donare la vita. Tutto questo Giovanni lo rappresenta anche plasticamente con l’acqua e il sangue che scaturiscono dal costato di Gesù sulla croce.
In conclusione: tutto ciò che c’è di buono nel mondo viene da questa fonte. Ogni annuncio, ogni azione, ogni testimonianza, ogni atto o gesto vitale che si compie nel mondo dipende dallo Spirito di Dio riversato attraverso Gesù sul mondo. Senza, nessuno può vivere, nessuno può essere fecondo, nessuno può portare frutto, nessuno può donarsi a sua volta. Anche se non lo sa. Perché l’acqua feconda la terra sempre e comunque e, a sua volta, la terra fa vivere tutti. Anche te.
La guarigione del cieco nato nel Vangelo di Giovanni è un capolavoro di ironia, nel quale tutti un po’ dovremmo riconoscerci.
Photo by @hadigern via Twenty20
Perché è difficile cambiare? Cambiare è difficile come per un cieco tornare a vedere.
“Gli uomini non cambiano” dice una bellissima e tristissima canzone.
Secondo il Vangelo, solo Gesù, qualche volta, ci riesce. Anche così possiamo interpretare il famoso episodio del cieco nato.
Gesù lo guarisce, ma tutto il mondo intorno a lui non accetta quello che è successo. Nessuno vuole vedere come stanno realmente le cose: il cieco è stato guarito. Quell’uomo adesso vede, ma tutti gli altri continuano a negare la realtà. Chi è il vero cieco?
Il Vangelo, qui come in altri passi, ha un forte senso dell’ironia.
Ma questa ironia è rivolta proprio a noi che lo leggiamo e ci sentiamo, per qualche motivo “buoni”, non agli altri che, forse inconsciamente, scriviamo sulla lavagna dal lato dei cattivi.
Il motivo per cui non riusciamo a cambiare, anche quando dovremmo, è che continuiamo a vedere e giudicare le cose sempre allo stesso modo, senza saper scorgere le novità e il cambiamento.
Non vediamo, non perché non abbiamo occhi per vedere o intelligenza per capire, ma perché abbiamo la vista e il pensiero occupati da altre cose. Preferiamo il nostro solito modo di vedere o le nostre solite convinzioni alla verità. Mentre per accettare le cose come stanno occorre coraggio e trasparenza interiore.
Facile a dirsi, però, anche se è dura, è così.
Ricordo un vecchio cartone che mi piaceva molto quando ero bambino: Mister Magoo. Non smettevo di ridere perché Magoo vedeva a malapena, ma non ne era consapevole, perciò trasformava tutto ciò che aveva davanti in un oggetto che stava solo nella sua fantasia, mettendosi in situazioni sempre più ridicole.
Ecco, noi siamo Mister Magoo. Ci mettiamo in testa una cosa e pensiamo che sia giusta e vera, senza aver il coraggio di ammettere i fatti, senza riconoscere che possiamo aver sbagliato. Visti da fuori, facciamo un po’ ridere, come fanno sorridere amaramente i personaggi del Vangelo che non vogliono vedere che il cieco è stato guarito.
Le nostre idee, le nostre convinzioni, sono dunque qualcosa che non vogliamo mollare, ma che spesso ci impallano la realtà.
Essere ciechi non è un problema, se sai che è un problema. Ma se sostieni a tutti i costi di vedere, beh, allora la faccenda si fa seria.
“Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere” dice il proverbio.
In questo caso, però, non c’è peggior cieco di chi crede di vedere.