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L’acqua e lo Spirito

Agli autori della Bibbia piacciono i simboli. Perciò si parla spesso dello Spirito di Dio paragonandolo al fuoco o al vento. Ma il simbolo preferito da Giovanni è un altro: l’acqua.

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@5byseven via Twenty20

Ricordate le famose parole di Gesù?
“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”.
Spiegare che cosa significa acqua viva è facile: in greco è l’acqua che scorre da una fonte. Cioè, per farla breve, non è l’acqua del pozzo e non è l’acqua in bottiglia.

Ma le cose sono un po’ più complicate di così. Per capire davvero che cosa significano queste parole, dobbiamo fare un passo indietro.

La festa di Pentecoste, come la festa di Pasqua, è una festa ebraica che nel cristianesimo ha cambiato significato. Tuttavia, notate bene, “il grande giorno della festa” al quale si riferisce l’evangelista Giovanni, la festa durante la quale Gesù ha gridato queste parole nel Tempio, non è la Pentecoste, ma la festa di Sukkot, cioè la Festa delle Capanne.

La Festa delle Capanne è una delle feste ebraiche più antiche e importanti. Evoca il tempo del viaggio di Israele nel deserto dopo la fuga dall’Egitto, nella precarietà, sotto le tende, ma fin dalle sue origini è sempre stata collegata profondamente anche all’agricoltura e al raccolto, temi inseparabili dall’idea primordiale della fecondità e della vita.

Era perciò una festa di ringraziamento e di propiziazione per i prodotti della terra, legata alla simbologia dell’acqua, perché la terra, senz’acqua, è sterile. Insomma, si invocava il dono dell’acqua perché da essa dipendeva la vita, due cose inseparabili anche per Israele e la sua storia, nel deserto come nella Terra Promessa.

Ai tempi di Gesù la festa delle capanne durava sette giorni. Ciascun giorno si faceva una processione. Visualizziamo che cosa succedeva. Un sacerdote, seguito da molta folla, si recava alla fonte di Ghìhon, a sud-est rispetto alla collina del Tempio, poco fuori Gerusalemme.

Lì, mentre i presenti cantavano in coro “Attingerete con gioia acqua alle sorgenti della salvezza”, il sacerdote riempiva d’acqua una brocca d’oro e poi la conduceva insieme alla folla verso il Tempio, entrando in città da quella che si chiamava, appunto, “la porta dell’acqua”.

Tutti portavano nella mano destra rami di palma legati a ramoscelli di mirto e salice, in ricordo della costruzione delle capanne nel deserto. Nell’altra mano stringevano un cedro, o un limone, segno del raccolto. Tutto avveniva in un clima di gioia e festa, con canti, musica e danze.

La processione entrava infine nel Tempio e raggiungeva il cortile più interno, di fronte al Santuario.

Il sacerdote, sempre seguito dalla folla, continuava girando intorno all’altare degli olocausti. Il settimo giorno della festa, l’ultimo, il giro si ripeteva sette volte.
L’altare dei sacrifici era davvero grande, ma proprio grande: non pensate all’altare di una chiesa. Per farsi un’idea, era una roba alta sette metri, su una base quadrata di almeno venticinque.

Il momento culminante arrivava quando il sacerdote, salita la rampa che portava in cima all’altare, versava l’acqua della brocca d’oro in un imbuto d’argento. L’acqua scorreva così dall’altare fino a terra, mescolandosi al sangue dei sacrifici.

Ecco, è esattamente questo il momento in cui, secondo Giovanni, Gesù si alzò e prese la parola.

Così come ha già detto in altre pagine dello stesso Vangelo di essere l’agnello pasquale, la manna, il serpente, ora Gesù sta dicendo di essere lui la vera fonte. Attenzione: non l’acqua, ma la fonte dell’acqua.

L’acqua è “viva”, cioè è acqua di sorgente, proprio perché viene dalla fonte, cioè da Lui. E quest’acqua è lo Spirito. Giovanni lo dichiara apertamente. Anche se nella predicazione si preferisce più spesso parlare di vento e di fuoco, facendo riferimento alla Pentecoste secondo Luca, l’associazione simbolica tra acqua e spirito era invece, per un ebreo del tempo, molto più naturale di quanto non lo sia per noi oggi. La stessa parola nefesh, che traduciamo normalmente come “spirito” era in realtà anche un sinonimo di gola, e quindi di sete. Nello stesso tempo il simbolo dell’acqua richiama, insieme allo Spirito, la rivelazione di Dio in Gesù. Lo Spirito che scaturisce da Gesù è inseparabile dalla sua Parola e dunque, per Giovanni, da Gesù stesso perché lui, Gesù, è “la Parola fatta carne”.

L’acqua nella Bibbia è associata anche alla Torah, la Legge di Dio. Chi ne beve, cioè la mette in pratica, vive. Dunque da Gesù scaturisce lo spirito-acqua perché lui stesso prende il posto della Legge. Il “comandamento nuovo”, infatti, non è altro che Gesù stesso colto nell’atto di donare la vita. Tutto questo Giovanni lo rappresenta anche plasticamente con l’acqua e il sangue che scaturiscono dal costato di Gesù sulla croce.

In conclusione: tutto ciò che c’è di buono nel mondo viene da questa fonte. Ogni annuncio, ogni azione, ogni testimonianza, ogni atto o gesto vitale che si compie nel mondo dipende dallo Spirito di Dio riversato attraverso Gesù sul mondo. Senza, nessuno può vivere, nessuno può essere fecondo, nessuno può portare frutto, nessuno può donarsi a sua volta. Anche se non lo sa. Perché l’acqua feconda la terra sempre e comunque e, a sua volta, la terra fa vivere tutti. Anche te.

Bella a tutti!

Per approfondire l’uso di simboli e parabole:

Autore: Gianmario Pagano

Scrittore, autore, sceneggiatore, insegnante, prete romano.

Un commento su “L’acqua e lo Spirito”

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