“Sembra che Dio non esista”.
Così Tommaso d’Aquino comincia a parlare di Dio nelle dispense per i suoi studenti. Tommaso era un ottimo professore e andava subito al nocciolo della questione.
Se Dio è un bene infinito, il male, dovrebbe essere travolto e cancellato dalla sua presenza e dalla sua potenza. Ma il male invece c’è, e lo vediamo tutti. Perciò Dio non esiste. Come vedete, l’argomento non suona per niente nuovo. L’alternativa perciò sembra essere: “o Dio o il male”. Se c’è uno non ci può essere l’altro.
Vediamo che cosa dice il Vangelo, che è la base di ogni discorso cristiano su Dio.
In verità, come era nel suo stile, Gesù non offre ragionamenti o sillogismi sul bene e sul male, ma racconta storie: le parabole. Ce n’è una, molto famosa, che tratta questo argomento.
Un uomo semina del seme buono nei suoi campi. Ma mentre tutti dormono qualcuno semina di nascosto zizzania in mezzo al grano e se ne va. Quando le spighe crescono ecco apparire anche le spighe dell’erba cattiva. Allora i servi esprimono i loro dubbi: ma siamo sicuri che il seme fosse buono? Il padrone precisa che è stato di sicuro un suo rivale, perché i suoi semi erano di ottima qualità. Quelli, preoccupati, vogliono sradicare subito la pianta infestante, ma il padrone li ferma: no, non dovete farlo, perché così rischiate di strappare via tutto. Bisogna aspettare, perché solo al momento della mietitura si potrà distinguere la zizzania e preservare il grano buono.
Per capirsi, che cavolo è ‘sta zizzania? È chiamata anche loglio. Quando i bambini giocavano ancora nei prati si tiravano dietro le spighe di quest’erba che restano facilmente impigliate nei capelli e nei vestiti.
Ricordo di averci giocato infinite battaglie. Al contrario di altre famose erbacce, come la gramigna, somiglia al grano e proprio per questo è diventata famosa.
Ce ne sono varie specie. Alcune sono buone per il foraggio, ma quella cui si riferisce il vangelo è il loglio cattivo: una varietà che cresce facilmente nei campi coltivati a cereali. La sua caratteristica peggiore è che la sua cariosside, cioè il frutto secco maturo della spiga, indistinguibile dal seme, è tossica a causa di un fungo che vi attecchisce sopra.
Così questa povera pianta è diventata la metafora del male e degli uomini che lo servono, il richiamo simbolico per indicare tutti coloro che rendono il mondo, anziché un posto ricco di vita e di gioia, un posto pericoloso e problematico.
Il padrone risponde subito al dubbio dei servi: “io ho seminato seme buono”.
Perciò il male non viene da lui. C’è un’altra volontà. C’è un antagonista, un avversario, un guastatore che ha seminato di nascosto, con malizia, quando i servi non vedevano.
Il male non è una cosa reale, autonoma, che sta in piedi e cammina da sola, ma è una decisione, una volontà ostile, una scelta libera che utilizza alcune cose per danneggiarne altre. Il male è un tentativo di sabotaggio.
La reazione dei servi è istintiva: strappiamo via tutta la zizzania.
Ma il padrone a questo punto, dà un ordine preciso: NO.
L’erbaccia va lasciata dove sta, anche se ruba la terra, il sole e l’acqua al grano vero.
Perché? Semplice: perché a strapparla si farebbe peggio. Le radici dell’uno e dell’altra crescono insieme, avvinghiate inestricabilmente tra di loro nella terra, ed è impossibile strappare via una senza distruggere l’altro. Distruggere il grano buono, quello sì sarebbe un danno intollerabile.
La tolleranza diventa così una strategia: sopportare il male in vista del bene.
Il raccolto finale farà la differenza, perché una volta mietuto, il frumento si separa facilmente dalla zizzania.
Come si vede, la parabola più che una risposta teorica al problema del male, non ne spiega il perché. Offre invece una risposta pratica, indicando come affrontare la sfida: bisogna sopportare il male, contrastandolo indirettamente, con la resilienza. Bisogna concentrarsi sul bene, sul grano buono, continuando a prendersi cura con pazienza del campo, nonostante tutto. Cercare di combattere direttamente, con violenza, la zizzania, farebbe solo il gioco dell’avversario.
L’attesa, come si vede, è presentata come la chiave di tutto. E l’attesa nella Bibbia è un altro modo di chiamare la fede. Il mondo è come un campo, dove sta crescendo tanto bene, un bene immenso, che attende di essere raccolto e la zizzania, alla fine, si rivela essere solo una scocciatura, un inconveniente accettabile all’interno di un disegno più vasto.
Torniamo al mio collega, Tommaso d’Aquino. Ai suoi studenti rispondeva più o meno allo stesso modo: Dio non tollererebbe il male in alcun modo e in nessuna forma se non avesse in vista un bene più grande.
Dio dunque permette il male perché può trasformarlo in un bene, mettendolo al suo servizio. Così “tutto contribuisce al bene di coloro che amano Dio”, come diceva anche San Paolo.
Ma questo bene, dobbiamo riconoscerlo, diventa evidente solo quando il fine, che noi non vediamo, viene raggiunto. E finché quel momento non arriva, la questione appare incerta. È una prospettiva comprensibile, ma ci va un po’ di traverso.
È un po’ come chiedere al guidatore, guardando fuori dal finestrino: “perché fai questa strada orribile?” e poi sentirsi dire: “Conosco la strada meglio di te!”.
C’è però un’altra cosa da considerare e che è un po’ alla base di tutto questo discorso: non si può comprendere la visione cristiana del bene e del male senza guardare al mistero della croce, della morte e della Resurrezione di Cristo. È in fondo quello il contesto vero di tutte le parabole, anche di quella della zizzania.
Il male infatti è una cosa talmente reale e dolorosa, soprattutto quando colpisce gli innocenti, che nessun discorso sarà mai soddisfacente e nessuna giustificazione fatta con le parole, per quanto logica e sofisticata, ci suonerà mai del tutto accettabile.
Ci vuole un gesto straordinario, che parli più di tutte le parole del mondo. La decisione di Gesù di stare dalla parte delle vittime innocenti in mano ai suoi carnefici è non tanto la risposta, ma la sua proposta silenziosa, davanti allo scandalo del male.
Ricordate il testamento di Tito, la bellissima canzone di De Andrè?
Uno dei due ladroni che muore accanto a Gesù fa un bilancio della sua vita, davanti alla madre che lo piange, proprio come fa la madre di Gesù accanto a lei: ha visto il dolore, la crudeltà, l’ingiustizia in tutte le sue forme e se ne è fatto anche complice e responsabile a sua volta. Eppure vede che Cristo, l’uomo che muore accanto a lui, non prova rancore e non odia chi gli fa del male.
E le sue ultime parole sono:
“Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, ho imparato l’amore”.
E così, anziché nell’odio, muore nella pace.
Il male, in questo caso la sofferenza, diventa così, un’occasione per amare, per dare un senso alla vita, anziché per odiare e bestemmiare.
Chissà, forse nel mondo non c’è solo il bene anche per questo.
Fatemi sapere che ne pensate.
Bella a tutti!
Per approfondire: