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Dio e il mistero del male

Il mistero del male sembra opporsi all’esistenza di Dio. C’è una risposta? Sì, ma non è teorica. È pratica. E coinvolge ciascuno personalmente.

“Sembra che Dio non esista”.

Così Tommaso d’Aquino comincia a parlare di Dio nelle dispense per i suoi studenti. Tommaso era un ottimo professore e andava subito al nocciolo della questione.

Se Dio è un bene infinito, il male, dovrebbe essere travolto e cancellato dalla sua presenza e dalla sua potenza. Ma il male invece c’è, e lo vediamo tutti. Perciò Dio non esiste. Come vedete, l’argomento non suona per niente nuovo. L’alternativa perciò sembra essere: “o Dio o il male”. Se c’è uno non ci può essere l’altro.

Vediamo che cosa dice il Vangelo, che è la base di ogni discorso cristiano su Dio.

In verità, come era nel suo stile, Gesù non offre ragionamenti o sillogismi sul bene e sul male, ma racconta storie: le parabole. Ce n’è una, molto famosa, che tratta questo argomento.

Un uomo semina del seme buono nei suoi campi. Ma mentre tutti dormono qualcuno semina di nascosto zizzania in mezzo al grano e se ne va. Quando le spighe crescono ecco apparire anche le spighe dell’erba cattiva. Allora i servi esprimono i loro dubbi: ma siamo sicuri che il seme fosse buono? Il padrone precisa che è stato di sicuro un suo rivale, perché i suoi semi erano di ottima qualità. Quelli, preoccupati, vogliono sradicare subito la pianta infestante, ma il padrone li ferma: no, non dovete farlo, perché così rischiate di strappare via tutto. Bisogna aspettare, perché solo al momento della mietitura si potrà distinguere la zizzania e preservare il grano buono.

Per capirsi, che cavolo è ‘sta zizzania? È chiamata anche loglio. Quando i bambini giocavano ancora nei prati si tiravano dietro le spighe di quest’erba che restano facilmente impigliate nei capelli e nei vestiti.
Ricordo di averci giocato infinite battaglie. Al contrario di altre famose erbacce, come la gramigna, somiglia al grano e proprio per questo è diventata famosa.

Ce ne sono varie specie. Alcune sono buone per il foraggio, ma quella cui si riferisce il vangelo è il loglio cattivo: una varietà che cresce facilmente nei campi coltivati a cereali. La sua caratteristica peggiore è che la sua cariosside, cioè il frutto secco maturo della spiga, indistinguibile dal seme, è tossica a causa di un fungo che vi attecchisce sopra.

Così questa povera pianta è diventata la metafora del male e degli uomini che lo servono, il richiamo simbolico per indicare tutti coloro che rendono il mondo, anziché un posto ricco di vita e di gioia, un posto pericoloso e problematico.

Il padrone risponde subito al dubbio dei servi: “io ho seminato seme buono”.
Perciò il male non viene da lui. C’è un’altra volontà. C’è un antagonista, un avversario, un guastatore che ha seminato di nascosto, con malizia, quando i servi non vedevano.

Il male non è una cosa reale, autonoma, che sta in piedi e cammina da sola, ma è una decisione, una volontà ostile, una scelta libera che utilizza alcune cose per danneggiarne altre. Il male è un tentativo di sabotaggio.

La reazione dei servi è istintiva: strappiamo via tutta la zizzania.
Ma il padrone a questo punto, dà un ordine preciso: NO.
L’erbaccia va lasciata dove sta, anche se ruba la terra, il sole e l’acqua al grano vero.

Perché? Semplice: perché a strapparla si farebbe peggio. Le radici dell’uno e dell’altra crescono insieme, avvinghiate inestricabilmente tra di loro nella terra, ed è impossibile strappare via una senza distruggere l’altro. Distruggere il grano buono, quello sì sarebbe un danno intollerabile.

La tolleranza diventa così una strategia: sopportare il male in vista del bene.
Il raccolto finale farà la differenza, perché una volta mietuto, il frumento si separa facilmente dalla zizzania.

Come si vede, la parabola più che una risposta teorica al problema del male, non ne spiega il perché. Offre invece una risposta pratica, indicando come affrontare la sfida: bisogna sopportare il male, contrastandolo indirettamente, con la resilienza. Bisogna concentrarsi sul bene, sul grano buono, continuando a prendersi cura con pazienza del campo, nonostante tutto. Cercare di combattere direttamente, con violenza, la zizzania, farebbe solo il gioco dell’avversario.

L’attesa, come si vede, è presentata come la chiave di tutto. E l’attesa nella Bibbia è un altro modo di chiamare la fede. Il mondo è come un campo, dove sta crescendo tanto bene, un bene immenso, che attende di essere raccolto e la zizzania, alla fine, si rivela essere solo una scocciatura, un inconveniente accettabile all’interno di un disegno più vasto.

Torniamo al mio collega, Tommaso d’Aquino. Ai suoi studenti rispondeva più o meno allo stesso modo: Dio non tollererebbe il male in alcun modo e in nessuna forma se non avesse in vista un bene più grande.

Dio dunque permette il male perché può trasformarlo in un bene, mettendolo al suo servizio. Così “tutto contribuisce al bene di coloro che amano Dio”, come diceva anche San Paolo.

Ma questo bene, dobbiamo riconoscerlo, diventa evidente solo quando il fine, che noi non vediamo, viene raggiunto. E finché quel momento non arriva, la questione appare incerta. È una prospettiva comprensibile, ma ci va un po’ di traverso.

È un po’ come chiedere al guidatore, guardando fuori dal finestrino: “perché fai questa strada orribile?” e poi sentirsi dire: “Conosco la strada meglio di te!”.

C’è però un’altra cosa da considerare e che è un po’ alla base di tutto questo discorso: non si può comprendere la visione cristiana del bene e del male senza guardare al mistero della croce, della morte e della Resurrezione di Cristo. È in fondo quello il contesto vero di tutte le parabole, anche di quella della zizzania.

Il male infatti è una cosa talmente reale e dolorosa, soprattutto quando colpisce gli innocenti, che nessun discorso sarà mai soddisfacente e nessuna giustificazione fatta con le parole, per quanto logica e sofisticata, ci suonerà mai del tutto accettabile.

Ci vuole un gesto straordinario, che parli più di tutte le parole del mondo. La decisione di Gesù di stare dalla parte delle vittime innocenti in mano ai suoi carnefici è non tanto la risposta, ma la sua proposta silenziosa, davanti allo scandalo del male.

Ricordate il testamento di Tito, la bellissima canzone di De Andrè?
Uno dei due ladroni che muore accanto a Gesù fa un bilancio della sua vita, davanti alla madre che lo piange, proprio come fa la madre di Gesù accanto a lei: ha visto il dolore, la crudeltà, l’ingiustizia in tutte le sue forme e se ne è fatto anche complice e responsabile a sua volta. Eppure vede che Cristo, l’uomo che muore accanto a lui, non prova rancore e non odia chi gli fa del male.

E le sue ultime parole sono:
“Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, ho imparato l’amore”.
E così, anziché nell’odio, muore nella pace.
Il male, in questo caso la sofferenza, diventa così, un’occasione per amare, per dare un senso alla vita, anziché per odiare e bestemmiare.
Chissà, forse nel mondo non c’è solo il bene anche per questo.

Fatemi sapere che ne pensate.
Bella a tutti!

Per approfondire:

Scienza contro Religione?

La scienza e la religione si escludono a vicenda? In realtà, non dobbiamo affatto scegliere.

Oggi vorrei farvi fare conoscenza con un personaggio speciale.

Probabilmente la prima cosa che vi colpirà è il suo abito. Sì, si tratta di un prete.
Ma questo prete, quest’uomo, con l’abito religioso, Georges Lemaître, è una delle menti più brillanti e uno dei più grandi scienziati del XX secolo.

Nel 1927 pubblicò un articolo nella rivista della Società Scientifica di Bruxelles, un articolo in cui per primo presentò quella che lui chiamava la teoria dell’atomo primigenio. Cioè l’idea che tutto ciò che esiste, tutto la materia e l’energia, tutto l’universo fosse stato originariamente talmente denso da essere compresso nello spazio paragonabile a quello di un singolo atomo.

Quella, insomma, che poi fu chiamata, all’inizio solo per scherzo, la teoria del “grande botto” o “teoria del Big Bang”.

C’è da dire però che le scoperte scientifiche raramente sono il parto di una mente sola, e padre Lemaitre, anche se fu il primo a suggerire questa idea, tuttavia non fu l’unico, perché partecipò in modo molto attivo nella storia di una scoperta che coinvolge i nomi di diversi scienziati e che, tra l’altro, trovate raccontata molto bene in “Cosmicomic” che trovate in libreria e che vi consiglio di non perdere. È Parte di un’ottima collana a fumetti sugli scienziati più influenti dell’ultimo secolo, un piccolo capolavoro di divulgazione scientifica.

L’idea di un Universo in espansione, a partire da uno spazio piccolissimo dove tutta la materia è compressa ad altissime temperature, Georges Lemaître non la prese in prestito dalla Bibbia ma fu un’intuizione che gli venne in mente studiando prima con attenzione le equazioni di Einstein sulla relatività generale e poi alcune osservazioni fatte dagli astronomi che iniziavano ad usare i grandi telescopi a specchio e i radiotelescopi.

Lemaitre non fu, ovviamente, subito compreso. Ai suoi tempi la maggior parte degli scienziati credevano in un universo eterno e stabile e molti pensarono che, dato che era un prete, volesse provare la verità del racconto della Bibbia. Persino Einstein lo liquidò con molta sufficienza, la prima volta che si incontrarono. Einstein naturalmente, che il cervello ce l’aveva e come, dopo qualche tempo, perché si rese conto che Lemaitre aveva ragione, perché i dati e le misurazioni astronomiche provavano che le galassie si allontanano le une dalle altre come i punti sulla superficie di un palloncino che si gonfia.

La prova definitiva della realtà del Big Bang arrivò però solo con la prova dell’esistenza della radiazione cosmica di fondo, una specie di impronta fossile di calore che si trova in ogni direzione nello spazio, che si aggira intorno ai 3 gradi kelvin…

Furono due ricercatori, Arno Penzias e Robert Woodrow Wilson, ad accorgersene e nel 1978 ricevettero il premio Nobel per la fisica. Dando finalmente ragione a Lemaitre, che accolse con gioia la notizia sul letto di morte.

Insomma, padre Lemaitre, credente e scienziato, è una delle menti che ha contribuito a cambiare il nostro modo di vedere il mondo, almeno quanto Galileo e Keplero. Tuttavia voglio richiamare la vostra attenzione, anche su un altro fatto che lo riguarda, che è altrettanto importante.

Padre Lemaitre era convinto che non si potesse usare la scienza per provare la fede. Era un anticoncordista, cioè era profondamente convinto che la scienza e la religione sono due cose distinte che seguono percorsi distinti. E si oppose sempre vivacemente a ogni tentativo di far coincidere la sua idea con quella della Creazione.

Disse e ripetè sempre con chiarezza che il Big Bang non corrispondeva alla prova della creazione.

La creazione è un’altra cosa. Il Big Bang non c’entra nulla con la creazione.
Perciò lasciate stare la scienza se volete parlare di religione. E viceversa.

Infatti è un discorso che vale anche in senso opposto. Il pericolo opposto è quello di fare della scienza una religione. Quella che noi chiamiamo “scienza” è un metodo per consolidare e accrescere la nostra conoscenza, ma non può essere un sostituto della religione. La scienza non può prendere il posto della religione e la religione non può prendere il posto della scienza.

Se fai della scienza la tua religione stai prendendo una decisione non scientifica.
Se uno scienziato si dichiara credente o non credente, non lo fa tanto sulla base delle sue scoperte o conoscenze scientifiche, ma lo fa in base a una propria riflessione filosofica o religiosa, che può anche tenere conto delle sue nozioni scientifiche, ma che, di fatto, è un’altra cosa. Se comincia a parlare di Dio, della sua esistenza o non esistenza, in realtà lo scienziato sta cominciando a fare il teologo. Ha tutto il diritto di farlo, come persona pensante, ma non sta più applicando il metodo della conoscenza scientifica, sta facendo altro. Sta facendo filosofia, metafisica.

Tanto per fare un esempio: la scienza non può provare l’esistenza o la non esistenza di Dio perché Dio, semplicemente, non ricade sotto il metodo scientifico. Usarla come un’arma contro la religione o, al contrario, strumentalizzarla a suo favore, è solo tempo perso. Se qualcuno vi dice: la scienza può soddisfare e risolvere tutti i problemi dell’uomo, ricordate che non può provare quest’affermazione con il metodo scientifico. Si tratta di una filosofia, appunto: lo scientismo. Non di una teoria scientifica.

Le persone sono un tutt’uno, la stessa persona che fa lo scienziato può porsi il problema di Dio o il problema del male, e, viceversa, una persona profondamente religiosa può amare la scienza perché anche religione non offre certo tutte le risposte alla curiosità dell’uomo e al suo bisogno di migliorare la propria vita. Uno può essere ispirato dalla religione a fare ricerca scientifica e un altro può, sulla base della sua ricerca scientifica, essere portato a fare considerazioni filosofiche e religiose.

Ma quello che deve essere chiaro è la linea di demarcazione del metodo. Se stai giocando a scacchi non puoi pretendere di giocare nello stesso tempo alla dama.

Ai miei alunni ripeto sempre: la scienza e la religione sono ambedue importanti, ma danno due risposte diverse a due domande diverse. Studiare l’una e l’altra ci aiutano a comprendere meglio l’una anche alla luce dell’altra. Sono due cammini diversi, ma non siamo costretti a scegliere tra l’uno e l’altro. Possiamo praticarli tutti e due con grande frutto e grande soddisfazione intellettuale.

In conclusione, vorrei lasciare la parola proprio a lui, a uno dei padri della teoria del Big Bang:

“Esistono due vie per arrivare alla verità. Ho deciso di seguirle entrambe. Niente nel mio lavoro, niente di ciò che ho imparato negli studi di ogni scienza o religione ha cambiato la mia opinione. Non ho conflitti da riconciliare. La scienza non ha cambiato la mia fede nella religione e la religione non ha mai contrastato le conclusioni ottenute dai metodi scientifici”.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Il più grande di tutti

Chi è il migliore di tutti? L’eroe più grande? Così grande che non si dovrebbe mai smettere di raccontarne la storia? Ognuno ha il suo eroe preferito. Quello di Gesù era Giovanni il Battista. Ma perché? E perché “il più piccolo nel Regno di Dio” è più grande persino di lui?

Chi è il più grande di tutti gli uomini?

Chi è che ha fatto la cosa più grande che si possa fare, che ha fatto la più grande scoperta, la più grande impresa che nessuno può eguagliare, che ha fatto la più grande conquista, che è stato il migliore di tutti, che ha affrontato le sfide e le sofferenze più grandi, che ha vinto le battaglie più difficili, che ha salvato più vite, che è stato così insomma così eroe da essere più eroe di tutti?

Ciascuno di noi ci dovrà pensare un po’ prima di dare una sua personale risposta.
Secondo quanto testimoniano i Vangeli, Gesù invece non aveva nessun dubbio.

“Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista” (Mt 11,11)

“Nato da donna” è un giro di parole ebraico, una “circumlocuzione” per dirla in modo colto, che significa “essere umano”, “appartenente al genere umano”.

Insomma, l’espressione equivale a dire: non è mai spuntato fuori in questo mondo un essere umano straordinario quanto lui.

Anche tenendo conto di chi lo ha fatto, si tratta di un complimento davvero niente male.

Ma che cosa ha fatto il Battista per meritarselo?

Giovanni, detto il Battezzatore o, appunto, il Battista è un personaggio di cui abbiamo certezza storica. Ne parlano fonti extrabibliche e anche lui ha avuto un seguito di discepoli che è sopravvissuto a lungo e in modo indipendente rispetto al gruppo dei seguaci di Gesù.

Che cosa ha fatto di così speciale? Giovanni era certo uno che pensava in grande, che non accettava compromessi, che parlava con libertà e franchezza, che si schierava in favore della verità e la giustizia e non guardava in faccia a nessuno, cantandole a tutti, arrivando a sfidare il potere, in un tempo in cui però sfidare il potere non consisteva nel postare con livore su Facebook, ma nel rischiare letteralmente che ti staccassero la testa dal collo.

Che cosa predicava? Che tutto stava per cambiare e capovolgersi. Che tutto non sarebbe stato più come prima. Predicava un cambiamento imminente e inesorabile: Dio avrebbe fatto presto irruzione nella storia e avrebbe rovesciato come un pedalino l’esistenza di tutto e di tutti. Un messaggio simile a quello dei profeti, ma carico di una visione costruttiva e positiva che altri profeti non avevano. Dio infatti non avrebbe solo azzerato tutto ciò che di marcio, sbagliato, ingiusto c’era prima, ma avrebbe anche finalmente imposto un suo dominio, che niente e nessuno avrebbe più potuto contrastare: il Regno di Dio.

Alla fine, posto di fronte al pericolo e alle minacce, non ha avuto paura e gli è stata tagliata la testa da Erode Antipa, un uomo che voleva diventare re, a modo suo, ovviamente ma che, invece di ottenere una corona perde la testa per primo, non tanto per la danza di una ragazzina quanto per tenere il punto che la parola di un re non si può ritrattare, mai.

Ma neanche il coraggio di morire per una giusta causa è la cosa più grande che ha fatto Giovanni il Battista, secondo me.
Giovanni Battista ha fatto qualcosa di ancora più grande: convincere tanta gente di un messaggio che nessuno, ma proprio nessuno, vuole sentire.

Guardate che non era per niente facile quello che ha fatto. Un’impresa che, al confronto, scalare tutte le cime sopra gli ottomila metri è una passeggiata al parco.

Quale impresa? Provate voi a convincere la gente che i problemi del mondo non sono colpa degli altri, ma sono colpa loro. Una vera mission impossible. Dire a qualcuno “guarda che è colpa tua” è contro tutte le regole del marketing. Se siete venditori e dite a qualcuno che il suo problema è colpa sua, che le sue pentole, per esempio, fanno schifo perché lui le usa male, non riuscirete mai a vendergli un set di pentole nuove.

Provate a dire oggi, che ne so, se volete formare un partito politico o vincere le elezioni, a dire alla gente: “guardate che se c’è ingiustizia, corruzione, evasione fiscale e chi più ne ha più ne metta, è colpa vostra!”. Non c’è niente di sbagliato nel mondo che vi circonda. Siete voi quelli sbagliati, quelli che devono cambiare. È molto facile che si finirebbe odiati da tutti e soli come cani. E già forse, mentre parlo, forse un po’ di gente è fuggita su altre pagine o su altri canali. Pazienza.

Invece Giovanni era bravo. Era convincente. Aveva carisma. E soprattutto praticava quello che predicava, imponendo a se stesso una vita dura ai margini della società.

Giovanni ha fatto davvero qualcosa di straordinario. Ha detto a tutti: non aspettate che Dio cambi il mondo, non state a dare a Lui tutte le responsabilità (al mondo, a Dio) cambiate voi, cambiate in meglio. Non tentate di trasformate le cose, non cercate di cambiare gli altri, non scavate trincee, non alzate barriere, non fate la guerra a nessuno, siate solo onesti con voi stessi e ditevi: “adesso basta, devo cambiare io”.
Ciascuno deve dirsi: “da oggi, non domani, voglio essere l’uomo che desidero diventare”. Io, io stesso, devo essere il mondo come voglio che sia. Sono io che devo cambiare strada, imprimere una nuova direzione alla mia esistenza, ai miei desideri, ai miei progetti e, soprattutto, alle mie azioni. Questa è la radice della parola “convertirsi”: cambiare radicalmente modo di pensare, guardare tutte le cose con occhi nuovi.

Giovanni annunciava il messaggio più difficile di tutti. Ha capovolto la prospettiva. Non ha smesso di indicare le loro responsabilità ai potenti – del resto per quello ci ha rimesso la vita – ma indicava a tutti le proprie, uniche, responsabilità. Mentre annunciava l’imminenza di un’era nuova, invitava tutti a riprendere la vita nelle proprie mani, anche se questo significava fare scelte difficili.

Diceva: “vuoi cambiare il mondo, la società, la tua vita? Smetti di lamentarti e cambia te stesso”.

Per sottolineare il suo messaggio, aveva fatto un’invenzione speciale. Aveva iniziato a proporre un gesto, oggi diremmo una “challenge”, collettiva, simbolica: fare un bagno, immergendosi completamente nel Giordano, come a dire: “ricomincio da capo”, “rinasco di nuovo”, “mi lavo”, ma per lavarmi dentro, per non essere più lo stesso, per concedermi un nuovo inizio, ripercorrendo la strada degli antenati che attraversarono il Giordano per entrare nella Terra Promessa guidati da Giosuè. Questo era il suo battesimo.
Chi si battezzava mostrava la sua adesione a un nuovo modo di pensare e di vedere la vita, in cui ciascuno era chiamato a prepararsi al grande avvenimento dell’arrivo del dominio di Dio, permettendo innanzitutto a Dio di dominare nel suo cuore con la riscoperta della giustizia, dovuta al prossimo prima ancora dell’amore. Perché se al prossimo non dai giustizia, l’amore può diventare una crudele presa in giro.

Giovanni Battista è l’uomo più grande di tutti perché ha reso il servizio più grande di tutti all’umanità e, dunque, a ciascuno di noi: ricordarci che tutto comincia guardando dentro se stessi e mettendo in discussione se stessi.

Non è cosa da poco. Tutti noi siamo quelli che siamo perché possiamo salire sulle spalle di coloro che ci hanno preceduti. Si dice che tutti noi possiamo essere come nani sulle spalle dei giganti. Ma a volte, per salire ancora più in alto, i giganti salgono sulle spalle di altri giganti.

Gesù insomma ha detto: “Giovanni Battista è il mio gigante”.

Il Battista ha fatto in modo che la gente cominciasse a ragionare in un modo adatto ad accogliere la sfida, ancora più grande, della predicazione provocatoria di Gesù, che ricomincia proprio dalla sua: “convertitevi”, cioè “cambiate voi stessi, innanzitutto”, per preparare un mondo migliore dovete essere persone migliori.

Ma c’è un twist finale.

«Fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» (Lc 7,28)

Perché chi viene dopo di lui, il più piccolo nel Regno di Dio, in questo nuovo mondo predicato da Gesù, è ancora più grande?

Perché è come un nano che è salito sulle spalle non di uno, ma di due giganti.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Come vincere le cattive abitudini?

Perché non riesco a vincere una cattiva abitudine e, nonostante lo voglia davvero, poi torno sempre a fare le stesse cose? Perché non riusciamo a cambiare in meglio la nostra vita?

Prendete una vostra cattiva abitudine. Per esempio: prendere continuamente in mano il cellulare per scorrere le notizie su Facebook; oppure: rimandare sempre a domani qualcosa che sapete che è urgente cominciare subito; oppure: cercare di mangiare più sano, smetterla con le patatine fritte e mangiare più verdura e insalata; oppure ritrovarsi con gli stessi amici o amiche per parlare male di qualcuno, e così via.

Qualunque cosa, che già sapete che dovreste smettere immediatamente di fare non solo perché è moralmente cattiva, ma perché vi rende la vita più triste e difficile.

Ebbene: scordatevi di usare la sola forza di volontà. Se farete un proposito del tipo: “farò più esercizio e andrò” a correre, oppure “comincerò a mangiare sano”, oppure “studierò di più”, “non parlerò più male del prossimo”, non funzionerà. Davvero, non funzionerà proprio MAI. E il bello è che lo sapete già.

Allora è possibile cambiare? Sì, ma a patto di prendere consapevolezza di una cosa fondamentale, che ora vi dirò. Quando si tratta di vizi o di abitudini cattive (che in realtà sono esattamente la stessa cosa) noi concentriamo sempre l’attenzione sul comportamento, sull’azione in sé, sulla routine della cattiva abitudine che si ripete. E pensiamo: “non devo fare questo o quest’altro”. È un errore.

In realtà dovremmo essere molto più furbi di così e cominciare col conoscere meglio la nostra natura. Specialmente il lato semplicemente animale di noi stessi. Quando dico “animale” non intendo solo ciò che si riferisce alle funzioni vitali fisiche, all’istinto, alla sensibilità, alle passioni del cibo o della sessualità, ma proprio a una componente essenziale di ciò che siamo e che dobbiamo conoscere bene per poterla sfruttare a nostro vantaggio.

La verità è che per fare un vero progresso che definiamo “spirituale” dobbiamo amare e conoscere bene la nostra parte animale, nostro “frate asino” – come lo chiamava san Francesco – non disprezzarlo.

Vediamo in pratica che cosa significa. Immaginate voi stessi non come angeli caduti, esseri spirituali imprigionati nella carne, ma come animali da ammaestrare. E ripetete di nuovo la parola “animale” con tutto l’amore possibile.

Questa è una cosa più facile da capire per chi ama davvero gli animali. Non importa in quale animale vi riconoscete, perché, con la giusta pazienza e la giusta tecnica si possono ammaestrare anche quelli feroci. Si potrebbe dire che in un certo senso gli esseri umani sono animali capaci di fare meraviglie, ma che, se non sono ammaestrati bene, rischiano di diventare feroci e molto pericolosi.

Però andiamo sul facile, immaginate di essere come un topo o come un cagnolino, oppure, se vi sentite più belli e nobili d’animo, pensate a un cavallo (san Francesco, per umiltà, pensava a un asino) e ricordatevi di questo: la maggior parte delle cose che fai tutti i giorni le fai senza pensarci, per abitudine. Tanti comportamenti, ripetuti nel tempo, ci hanno ammaestrati male e si sono trasformati in vizi. E frate asino non ci ubbidirà a comando. Dovremo insegnargli di nuovo con pazienza a comportarsi diversamente. La natura animale cercherà sempre di adattarsi perché il suo primo intento è quello di sopravvivere, perciò, se le chiedete qualcosa di diverso dal solito, resisterà. Se siete sovrappeso il vostro corpo lotterà per restare sovrappeso. Se siete abituati a dormire con il cellulare, quando lo lascerete nell’altra stanza vi sentirete un a disagio finché non lo riprenderete in mano. L’unico modo di diventare magri o diventare più produttivi non consisterà perciò nel decidere di mangiare meno o di lavorare di più, perché l’animale che è in voi vi ingannerà sempre.

La parte più inconscia del vostro cervello vincerà sulla pura forza di volontà.

Perciò, che cosa dobbiamo fare? Innanzitutto, dobbiamo diventare più furbi, cambiare strategia e imparare a prendere il controllo della parte più automatica e spontanea di noi stessi. Nei video che seguiranno darò una serie di suggerimenti pratici basati sia sulla tradizione spirituale ascetica delle religioni sia sugli sviluppi scientifici sulla conoscenza di come funziona il nostro cervello. Due cose che sembrano lontane ma che invece vanno molto d’accordo.

Ecco, comunque il primo passo: se volete cambiare, la prima cosa che dovete fare è avere pazienza e amare profondamente l’animale che è in voi. Cercate insomma di volere bene a frate asino e ricordatevi che non potete fare a meno di lui. Non potete maltrattarlo o ignorarlo. Così come non potrete addestrare il vostro cagnolino, per esempio, a sedersi a comando se non vi prendete cura di lui e lo fate sentire amato. Se lo ignorate, vi ignorerà. Se invece lo fate soffrire e lo disprezzate l’unica cosa che potrete insegnargli è saltare al collo del prossimo per sbranarlo.

Per approfondire:

Potete anche credere che l’inferno non c’è, ma…

…nessuno può negare che c’è stato.

Era al centro dell’Europa, in quello che oggi è il territorio della Polonia, in una cittadina che si chiama Oswiecim, che oggi conosciamo tutti con il nome di Auschwitz.

Sono stato più volte, nel corso degli anni, a visitare Auschwitz, che si trova a due passi dalla meravigliosa città di Cracovia, e non mi sono mai abituato a vedere quello che lì ancora si può vedere.

Le montagne di valigie e di scarpe dei prigionieri, i mucchi dei loro effetti personali, occhiali e spazzolini, gettati in delle fosse. Montagne di capelli. Vite vissute, tracce di esistenza quotidiana calpestate, ma non cancellate. Perché è tutto ancora lì. Non c’è nessun silenzio degli innocenti. Perché gli innocenti gridano nella nostra memoria, non sono silenziosi.

Il museo presenta la ricostruzione dei forni crematori, che potete trovare ovunque su internet, ma che lì acquisiscono un’aura di terribile immediatezza. Così come la ricostruzione della vita, forse ancora più dura della morte, di coloro che non venivano condotti alle camere a gas e costretti ai lavori forzati.

Auschwitz è in tutto e per tutto una specie di epifania del male.

La rivelazione di un male supremo, assoluto, disumano, il regno della disperazione e dell’odio, dove la morte era applicata sistematicamente come in una macabra catena di montaggio.

La stazione dei famosi treni, i vagoni dei prigionieri, i binari che conducevano alla morte, i forni crematori, i plastici che mostrano come si moriva nelle camere a gas e come i prigionieri stessi fossero costretti a occuparsi dei cadaveri degli altri prigionieri.

Tutto è orribile e induce orrore e disgusto.

L’umanità si è macchiata di crimini orribili, ma mai questo lato oscuro si è manifestato con tanta forza e disprezzo per la vita. In un modo così evidente, vicino, ancora accessibile. Puoi andarci, puoi vederlo, puoi toccarlo, perché non si tratta di un mito lontano della storia, ma di qualcosa accaduta ieri. È come se si potesse provare più facilmente l’esistenza di Satana di quella di Dio.

Eppure ricordo che, la prima volta che lo visitai – e da allora ogni volta che ci torno – ad Auschwitz è possibile essere improvvisamente, per un solo istante, toccati da un raggio di sole. Rischiarati da una luce che si ostina a fendere quel buio e lo rifiuta, ultimo avamposto testardo della nostra, altrimenti perduta, umanità.

E questo in uno dei posti più tremendi che si possano immaginare: il bunker della fame.

Il bunker della fame era una cella tre x tre, senza finestre, a parte una presa d’aria, con una porta metallica. Quando si voleva punire qualcuno e farlo morire con la più atroce delle torture, si chiudeva lì e si lasciava, al buio, lì finché non sopravveniva lo sfinimento, appunto, per fame.

Anche questo, si può visitare ancora. Solo che ci trovate un grande cero. Alto un metro e mezzo, che viene sempre tenuto acceso. Perché è il luogo dove, il 14 agosto del 1941, proprio la vigilia di Ferragosto di 76 anni fa, è avvenuto un fatto straordinario, un miracolo di umanità.

Un gruppo di prigionieri del blocco 14 del campo, un centinaio di uomini, era stato destinato a lavorare nei campi, per la mietitura. Uno di questi, rocambolescamente, era riuscito a sfuggire alle guardie e a mettersi in salvo.

La legge del campo, però, era spietata. In casi come questo era prevista la decimazione. Cioè uno se dieci doveva essere messo a morte.

I prigionieri del blocco 14 furono perciò messi in fila e selezionati, semplicemente contando, partendo da uno a caso. In tutto dieci uomini, destinati al bunker della morte.

Un altro prigioniero, però, inaspettatamente, senza esitare, senza paura, si fece avanti, con grande stupore degli altri e persino delle SS, che non erano abituati a vedere il coraggio. Il prigioniero si chiamava Raimondo Kolbe, ma siccome aveva preso i voti come Francescano, aveva deciso di farsi chiamare Massimiliano.

Massimiliano, senza esitare chiese di morire al posto di un altro prigioniero, di nome Franciszek, un militare polacco. I due si conoscevano ovviamente, e Massimiliano sapeva che Franciszek era un padre di due figli con una moglie che non aveva perso la speranza di rivederlo.

Semplicemente, prese la parola e chiese di morire al posto suo. Il kapò lo scrutò per un attimo, sorpreso, ma, senza aggiungere nulla, accettò.

Massimiliano e altri nove prigionieri furono chiusi così nel bunker. Passarono lì dentro due settimane, senza cibo, acqua e luce. Lo stupore degli aguzzini crebbe, perché anziché bestemmie e urla di disperazione, come erano abituati a sentire, ascoltarono provenire, da dentro la cella, solo preghiere e canti. Massimiliano era riuscito a dare a tutti, in quell’oscurità, il coraggio di morire con dignità, valore, e persino con fede ai suoi compagni condannati allo stesso mostruoso destino.

Alla fine, i nazisti si decisero ad aprire la cella. Erano rimasti vivi, nonostante tutto, ancora in quattro. Furono uccisi con una iniezione di acido. Massimiliano per ultimo. Secondo Hans Blok, il prigioniero che fu costretto ad ucciderlo, Massimiliano porse il braccio e disse semplicemente, con un filo di voce: “L’odio non serve a niente. Solo l’amore crea”. E morì, salutando la madre di Cristo: “Ave Maria”.

Potete essere credenti o non credenti. Ma di fatto, quel giorno ad Auschwitz, accadde un miracolo. Un miracolo di umanità. Nel luogo dove tutto ciò che è umano veniva sistematicamente cancellato, dove non c’era più dignità, rispetto, pensiero. Dove l’odio distruttore regnava sovrano, un uomo era stato capace di morire volontariamente al posto di un altro.

Massimiliano Maria Kolbe, era un religioso, uno studioso, un radioamatore, un operatore umanitario, era stato per anni missionario in Giappone, aveva scuole ed ospedali, era un giornalista, scrittore, fondatore di un periodico che stampava milioni di copie. Era stato considerato un nemico del regime nazista.

Ma quel giorno, nel profondo delle tenebre, Massimiliano fu, soprattutto, un uomo.

Dove non c’erano più uomini, ma solo mostri o figure di manichini nudi.

Massimiliano Kolbe. Un raggio di luce nel buio di Auswitz.

E quel raggio di luce splende ancora.

Per approfondire:

Leggere Marco, tutto d’un fiato

Fatevi un regalo: leggetevi il Vangelo di Marco. Tutto. Integralmente. Di seguito e, possibilmente, senza interruzioni. Soprattutto senza capitoli e versetti. È nato così, per essere letto così. Da soli o in piccoli gruppi. Marco non pensava al catechismo o al lezionario, o ai dibattiti dei teologi, ma a un unico racconto da recepire e trasmettere come un’esperienza indivisa.

Ogni tanto, fatevi un regalo. Un regalo di grande valore ma che non potete comprare. Un regalo che non vi costa nulla, a parte la vostra cosa più preziosa: il tempo. Neanche tanto, in verità.

Prendete in mano il Vangelo di Marco e leggetelo.

Ma non fate come si fa in Chiesa o al catechismo, o come si fa su internet. Dove il Vangelo si fa, letteralmente, a pezzi.

Di solito, quando leggiamo, se lo facciamo, ne prendiamo un “brano” – notate come è brutta questa parola: brano, cioè un pezzo strappato da un corpo, come quando un predatore sbrana una preda: quando leggiamo passi del Vangelo separatamente noi letteralmente lo sbraniamo, cioè lo facciamo a pezzi, strappandoli via da un racconto più organico.

Invece niente pezzi, niente brani: tutto.
Tutto insieme. Tutto d’un fiato. Tutto in un unico intervallo di tempo.
Approfittate della festa, di quel giorno libero in più che potete – forse – dedicare a voi stessi, o a qualcosa di grande valore.

Allora fate così.

Prendete il testo di Marco, non però dalle edizioni che trovate in giro. È un’operazione che potete fare a costo zero con ciascuno dei quattro vangeli, ma anche con qualunque libro della Bibbia. Se prendete un’edizione qualsiasi delle più diffuse, la trovate divisa in capitoli e versetti. Spesso anche con dei titoli inseriti che vogliono facilitare la lettura. Buttate tutto. Niente titoli, niente capitoli, niente versetti. Le citazioni in numeri servono per i teologi, ma servono meno per la lettura. Titoli capitoli e versetti, divisioni, numeri e numeretti sono stati aggiunti nel corso dei secoli dalla passione dei nostri antenati per la Bibbia, per valorizzarne ogni parola e ogni riga, ma oggi sono diventati per noi, più che un aiuto, un ostacolo.

Cercate su internet la versione che preferite e selezionatene tutto il testo. Ci sono innumerevoli siti che lo offrono, ovviamente, gratis. Poi, con il copia incolla, portate tutto il testo in un software di scrittura, come, per esempio, Word. Poi togliete tutti i titoli e, con l’aiuto della funzione trova-sostituisci, eliminiate tutti i numeri dei capitoli e dei versetti. Vi resterà solo il testo, nudo e crudo. In corpo 12 di un qualunque font, otterrete un testo di circa venti cartelle. Stampatelo per voi stessi, o fatevi un pdf. E leggetelo così. Nudo e crudo. Senza fronzoli. Come un unico racconto senza interruzioni, come un film che va visto tutto dall’inizio alla fine per essere goduto e compreso.

Se non vi va di fare quest’operazione, l’ho fatta io per voi, per il Vangelo di Marco. Trovate in una delle note della pagina, il testo del Vangelo di Marco, filtrato da ogni aggiunta e pronto per essere semplicemente gustato e letto, senza distrazioni. Potete leggerlo anche con il vostro cellulare.

Quando Marco scrisse il Vangelo lo scrisse come un’opera unica, senza divisioni, senza capitoli, senza numeri, indici, introduzioni o note. Lo scrisse come un unico documento che andava letto ad alta voce davanti a una comunità radunata che ascoltava tutto, dall’inizio alla fine, in piedi, dedicando a questo non più di un paio di ore scarse. Marco, e gli altri evangelisti, non pensavano al lezionario, pensavano a un’esperienza. Pensavano a un racconto coinvolgente che tenesse incollate molte persone, radunate tutte insieme in una casa, per una serata. Qualcosa che noi da secoli non facciamo più.

Eppure un Vangelo non è che questo: un unico, appassionante racconto.

Un attore che recitasse il Vangelo ad alta voce, ci metterebbe infatti meno di due ore a leggere tutto, dall’inizio alla fine. Se si legge con la mente, si può impiegare molto meno, anche mezz’ora e, se siete allenati o predisposti, persino pochi minuti.

Provate a farlo da soli. Oppure provate a farlo raccogliendo un piccolo gruppo di volenterosi. Oppure provate a proporlo alla vostra comunità di appartenenza, se ne frequentate una. Qualunque sia la vostra denominazione: cattolica o non cattolica. Regalatevi questa esperienza per Natale: un Vangelo nella sua interezza.

Se dovessi proporre una devozione per il cristiano degli anni duemila, proporrei esattamente questo: la lettura continuativa, ininterrotta, del Vangelo. A cominciare proprio da quello di Marco, il più antico, il primo dei quattro a essere scritto.

Esistono molte devozioni e pratiche personali. Questa è quella che vi suggerisco io. In verità non l’ho inventata io. Appartiene alla tradizione cristiana e si chiama “lectio divina”. Leggete e basta, non cercate subito di interpretare, di cercare concetti, di collegare passaggi biblici, di inquadrare le parole in uno schema teologico o dottrinale. Leggete, semplicemente. Lasciate che il testo del Vangelo vi entri nella mente, nella memoria, nell’anima, nella vita. Non commentate in cuor vostro, state alle parole stesse, come si sta con la mente a una preghiera. Lasciate che il Vangelo vi parli.

Solo una lettura continuativa può darci il sapore della visione d’insieme, farci cogliere il senso del dettaglio all’interno del tutto. Perché è un racconto unico, non un’antologia o una raccolta di testi. Nessuno di noi sopporterebbe di vedere un film una scena alla volta, magari in uno stillicidio che dura per anni, senza coerenza cronologica, a volte saltando di palo in frasca. Per forza poi non ricordiamo, non assimiliamo, non comprendiamo.

Leggere, da soli o in piccoli gruppi, di due o più, il testo del Vangelo tutto d’un fiato è ciò che somiglia di più all’esperienza che avevano in mente gli evangelisti quando li hanno scritti per i loro destinatari. E le esperienze non si possono a loro volta raccontare, ma vanno vissute. Facciamo perciò l’esperienza di gustare il racconto di Marco senza distrazioni, in un unico intervallo di tempo.

E quando avete finito? Ricominciate! Quante volte? Tutta la vita, se volete. Potete farne la vostra devozione personale.

Magari tenerlo sul comodino per leggere, leggere e poi rileggere, finché non vi è entrato nella pelle, nei muscoli, nelle ossa.

Le preghiere che recitiamo, se abbiamo fede, non sono anche parole che ripetiamo continuamente? Quante volte abbiamo ripetuto o detto il padre nostro? Oppure pensate alla preghiera cattolica del rosario. Ma quante volte abbiamo ripetuto il Vangelo intero? Non può essere il Vangelo intero una preghiera da ripetere e ripetere finché la nostra vita, senza nemmeno ce ne accorgiamo, cominci a somigliarci un po’?

È quello che auguro a tutti voi.

Bella a tutti.

Per approfondire:

Non ci indurre in tentazione

“Non ci indurre in tentazione” non è una buona traduzione. L’ha detto anche papa Francesco. Ma davvero allora abbiamo pregato il Padre Nostro nella maniera sbagliata?

L’espressione “non ci indurre in tentazione” mette a disagio, perché, nel nostro sentire comune, giustamente pensiamo a Dio come colui che soccorre e sostiene nella tentazione. Come un Padre che solleva dalle cadute, non come qualcuno che le provoca.

La traduzione della CEI ha già corretto il Padre nostro nel 2008, con l’espressione: “non abbandonarci alla tentazione”. Però, a dire la verità, anche questa traduzione solleva dei problemi.

In tutta onestà, secondo me, espressioni del tipo “non ci abbandonare” o “non ci lasciare nella tentazione” sono traduzioni che suonano molto bene, ma fanno altrettanta fatica ad afferrare il senso originale.

Qual è allora la traduzione migliore?

Qui bisogna dire due cose:

  • Non esiste una traduzione perfetta, perché ogni traduzione è anche un po’, inevitabilmente, un’interpretazione;
  • Non è tanto importante la traduzione. È molto più importante capire che cosa abbiamo in mente quando diciamo certe parole. Cioè l’intenzione che mettiamo nelle parole. E questo vale, soprattutto, ovviamente, per le parole di una preghiera.

Vi dico la mia. La traduzione più vicina al senso originale non dovrebbe andare lontano da questa:

“non introdurci nella prova”.

Ed ecco il perché.

L’espressione originale greca è

mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn

che San Girolamo tradusse nella Vulgata con la famosa espressione

et ne nos inducas in tentationem

dalla quale deriva, a sua volta, il nostro tradizionale “non ci indurre in tentazione”, che, come si vede, più che una traduzione è una trasposizione parola per parola che suona allo stesso modo. Praticamente un latinismo.

Letteralmente l’espressione greca eisenenkes, tradotta da San Girolamo con “inducas”, vuol dire “condurre dentro”, “far entrare”. Quindi più che “indurre”, che è in questo caso un latinismo, cioè una ripresa del suono della parola latina, dovremmo dire “introdurre”.

Ma non dobbiamo fermarci qui. I guai cominciano in realtà quando trascuriamo di cercare una traduzione accurata anche per la seconda espressione, altrettanto importante: tentazione.

La parola tentazione infatti si presta ad equivoci.

Il greco peirasmòn, è tradotto, sempre da San Girolamo con “tentatio” che poi in Italiano diventa, appunto, “tentazione”.

Gran parte del problema dipende dal senso attribuito a questo termine.

Il linguaggio comune associa la parola “tentazione” a una forma di seduzione, all’istigazione a compiere qualcosa di illecito, approfittando dell’inclinazione umana a fare il male, a peccare.

In questo senso – nel nostro immaginario collettivo, cioè nella nostra cultura condivisa – si tratta di un compito attribuito al diavolo che sfrutta le nostre debolezze per farci cadere.

Presa in questo senso, l’espressione “indurre in tentazione” suona totalmente fuori posto.

Dio non può certo volere il nostro peccato o la nostra caduta, perciò non è pensabile che ci abbandoni al male, in qualunque forma si presenti. Da qui nascono tutte le perplessità.

Allora, il termine peirasmos, tentatio, più che con “tentazione”, dovremmo tradurlo con il termine “prova”, nel senso di proprio di test, di verifica, di collaudo, di esame.

“Prova” evoca un campo semantico diverso da “tentazione”, perché se è vero che Satana è il tentatore per eccellenza e altrettanto vero che Dio spesso non risparmia all’uomo il momento della prova. Dio mette alla prova la fede di Abramo. Dio mette alla prova la pazienza di Giobbe. Ogni personaggio gradito a Dio nella Bibba passa attraverso il momento della verifica, così come ogni santo, così come nella vita di ogni cristiano, così come nella vita di ogni uomo.

Gesù stesso è condotto dallo Spirito nel deserto per essere messo alla prova. Essere sottoposti alla prova, è parte della condizione umana.

La vita stessa è in un certo senso come un collaudo, un test, un esame che non possiamo evitare.

È un concetto facile, comune, che è parte dell’esperienza di tutti. “Gli esami non finiscono mai”, dice il titolo dell’ultima commedia scritta dal grande Eduardo De Filippo, che, non a caso, è diventata anche un detto popolare.

Anche chi ha problemi con la fede lo può capire facilmente: la vita mette alla prova tutto: gli amori, le amicizie, i legami, le nostre convinzioni, ciò in cui crediamo, il valore stesso delle nostre azioni e dei nostri propositi.

Ditelo per esempio a un soldato al fronte, o a un uomo che affronta una dura malattia, o a chi vive una perdita, un lutto, un momento difficile della vita. Dio non vuole il nostro male, ma non risparmia quasi a nessuno momenti duri. A nessuno viene risparmiato il peso della sua croce. Una croce, più o meno visibile, è posta, prima o poi sulle spalle di tutti. E nel corso della vita di ciascuno ci sono prove più semplici e prove più difficili, a volte quasi insopportabili.

Il fatto che Gesù abbia insegnato a pregare con le parole: “Non farci entrare nella prova” allora diventa più comprensibile. Quello che viene chiesto a Dio è di non essere provati dalla croce, dal dolore. Perché cercare di evitare le prove nella vita è naturale come chiedere il nutrimento per la vita.

Il credente chiede a Dio di poter evitare le prove più dure dopo aver appena chiesto anche che “sia fatta la sua volontà”.

È una preghiera perfettamente cristiana perché è quello che Gesù stesso, secondo i Vangeli, ha chiesto al Padre durante tutta la sua esistenza, fino al momento più drammatico della sua vicenda.

Ed è esattamente questo quello che Gesù insegna a chiedere: che ci sia risparmiato il momento della prova, soprattutto di quella più dura, difficile, quella che temiamo di più e che abbiamo paura di non essere in grado di sopportare: la prova del dolore, della privazione, della separazione. Qualcosa che sappiamo che ha chiesto anche lui per se stesso.

L’unico passo in cui compare nel Vangelo di Matteo la parola tentazione (e ricordate che Matteo è lo stesso che offre la versione completa del Padre Nostro che si usa normalmente) è il passo del capitolo 26: il momento dell’agonia di Gesù nel Getsemani. È il momento più duro per Gesù: l’inizio della sua prova definitiva, quella della sua passione.

Gesù prega di poterla evitare, ma, sottolinea “non come vorrei io, ma come vuoi tu”. Poi torna dai discepoli insonnoliti e li esorta a pregare, proprio per non cadere nel momento della prova. Quando, di nuovo solo, ricomincia a pregare, si affida al padre dicendo “sia fatta la tua volontà”. Ed è esattamente quello il momento in cui i suoi nemici vengono per arrestarlo. È esattamente quello il momento in cui comincia la sua “prova”, la sua ultima, più grande, tentazione.

Non si capisce il Padre Nostro se non si capisce che essa non è solo la preghiera che ha insegnato ai suoi discepoli, ma anche quella con cui lui stesso si è rivolto al Padre per tutta la sua vita. Il padre nostro è il Vangelo stesso che diventa preghiera e viene messo sulle labbra del credente.

Per concludere: “non introdurci nella prova” – o come ha deciso di tradurre la conferenza episcopale francese, che è quella che il papa indica ad esempio (notate non cita la Bibbia CEI) – “non lasciarci entrare nella prova”, evoca meglio il senso della frase della preghiera di Gesù.

Io personalmente credo che continuerò nel cuore a pregare con “non ci indurre in tentazione” non solo per abitudine, ma perché mi sento in grado di attribuire all’espressione, anche se imperfetta, il suo giusto senso.

Fatemi sapere che cosa ne pensate nei commenti.

Intanto, vi faccio una domanda: voi che cosa farete? Come direte il padre nostro d’ora in poi?

Bella a tutti

Per approfondire:

I fratelli e le sorelle di Gesù

Molti passi del Nuovo Testamento menzionano i fratelli e le sorelle di Gesù. Come la mettiamo con “Maria sempre vergine”?

Al contrario di quanti molti possano pensare, l’argomento non è un tabù, anche perché tutti e quattro i vangeli ne parlano, in occasioni diverse. Facciamo qualche esempio.

Il passo più famoso è forse quello di Mc 3, dove si racconta che i fratelli di Gesù lo vanno a cercare perché pensano che sia completamente impazzito. Il passaggio è ripreso quasi letteralmente sia da Matteo sia da Luca.

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano» (Mc 3, 31-32).

L’evangelista Marco li menziona di nuovo, ripreso quasi letteralmente da Matteo, quando parla della prima reazione della gente di Nazareth alla predicazione di Gesù.

Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui (Mc 6, 3).

Ma anche il vangelo di Giovanni ne parla apertamente, dopo il racconto delle nozze di Cana. Del resto, un matrimonio è un tipico evento cui si partecipa con tutta la famiglia.

Dopo questo fatto [le nozze a Cana], [Gesù] discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo pochi giorni (Gv 2, 12).

Gli stessi fratelli, sempre nel vangelo di Giovanni, ritornano in scena più tardi, al capitolo 7, quando assistiamo a un vero e proprio litigio familiare.

I fratelli stavolta spingono Gesù a manifestarsi apertamente a Gerusalemme in occasione della grande festa di Succoth, per conquistare una volta per tutte il favore della folla che si radunerà nella Città Santa. Gesù è in disaccordo e mostra di voler essere molto più prudente.

I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui (Gv 7, 3-6).

Oltre ai Vangeli, gli Atti degli Apostoli menzionano di nuovo i fratelli di Gesù come parte della comunità primitiva che si radunava in preghiera con i discepoli e la madre di Gesù.

San Paolo, nelle sue lettere, ne parla in due occasioni. Quando professa di aver scelto liberamente di non sposarsi e di non portarsi dietro una moglie nei suoi viaggi, come invece fanno Pietro e i fratelli di Gesù – andate a vedere 1Cor 9, 5 – o quando menziona Giacomo definendolo “il fratello del Signore” all’inizio della lettera ai Galati.

Insomma, sì, Gesù aveva fratelli e ne conosciamo anche i nomi, sappiamo che uno di loro, Giacomo, è stato vescovo della Chiesa di Gerusalemme, mentre poco o nulla sappiamo delle sue sorelle.

Allora, ovviamente, viene spontanea la domanda: ma Maria, la madre di Gesù, ha partorito altri figli?

La fede nella verginità di Maria, cioè il fatto che dopo Gesù Maria non abbia avuto altri figli, la troviamo espressa dagli scrittori cristiani fin dal II secolo ed è sempre stata una convinzione profonda di gran parte dei cristiani fino a essere formulata definitivamente dal Secondo Concilio di Costantinopoli nel 553.

Contrariamente a quanto si crede, la Riforma protestante non cambiò idea su questo argomento.

Non solo lo stesso Lutero, ma altri grandi riformatori come Zwingli e, più tardi, John Wesley, conservarono, insieme alla fede tradizionale nel concepimento di Maria senza opera umana, quella nella sua verginità anche dopo la nascita di Gesù. Del resto, questa era stata la fede condivisa della Chiesa, orientale e occidentale, per almeno 1500 anni.

E oggi?

Oggi ci possiamo imbattere in tre diverse interpretazioni.

La prima risale a Tertulliano e sembra la più ovvia: Gesù aveva fratelli e sorelle biologici, del suo stesso sangue. Questa opinione è oggi seguita da diversi studiosi, soprattutto nel mondo protestante.

La seconda è quella, che a me piace molto, sostenuta da altri nomi illustri come Origene, Eusebio, Gregorio di Nissa, secondo la quale si trattava a tutti gli effetti di fratelli, ma non della stessa madre. Cioè, in pratica, fratelli provenienti da un precedente matrimonio di Giuseppe o fratelli adottivi subentrati successivamente. Senza escludere il fatto che le famiglie antiche non erano come diciamo oggi, “mononucleari”, cioè formate da padre madre e figli, ma comunità numerose formate da diverse coppie che mettevano in comune lo stesso pane, gli stessi ambienti e spesso gli stessi figli. Quindi considerarsi e chiamarsi fratelli, anche tra cugini di vario grado, era uso normale.

Da questa seconda possibilità ne discende una terza, che fu proposta da San Girolamo, il più famoso studioso dei testi originali ebraici e greci e il grande traduttore della Bibbia latina: i fratelli di Gesù devono intendersi semplicemente come cugini o congiunti, in pratica, parenti. Girolamo esprime le sue ragioni in un lavoro intitolato “Contro Elvidio” che potete voi stessi trovare on line. Il suo argomento principale è che fratelli in ebraico e greco si può tradurre anche “cugino” e Maria, la madre di Gesù, aveva in effetti una sorella che si chiamava con lo stesso nome.

Come potete capire da soli, le diverse opinioni in questo caso dipendono dai rispettivi presupposti.

Il motivo è semplice: le parole fratello e sorella hanno in tutte le lingue, non solo in ebraico e greco, un campo semantico molto ampio. Cioè vogliono dire molte cose diverse.

Per esempio, in ebraico, fratello si dice “‘ach”, ma nelle ricorrenze che abbiamo nella bibbia troviamo questa parola usata per dire, ovviamente, fratello biologico

  • Congiunto, appartenente a una stessa famiglia
  • Compaesano o compatriota, appartenente a una stessa comunità
  • Isreaelita (appartenente al popolo di Israele)
  • Correligionario, cioè membro di una stessa religione

E così via. La stessa cosa, più o meno, senza dilungarmi, avviene con la parola greca “adelphos” (fratello), sia nei testi della letteratura classica greca sia nella Bibbia greca dei LXX. Platone, per esempio chiamava adelphòi, cioè “fratelli”, i propri connazionali e Plotino tutti gli esseri

Anche oggi, nelle lingue moderne, diciamo fratello in molti sensi diversi. Un mio caro amico americano, tanto per fare un esempio, chiama “brother” senza esitazione e ambiguità – trattandolo come tale –  un compagno d’infanzia.

In parole povere, qualunque sia la vostra convinzione al riguardo, per usare una terminologia forense, ma che funziona bene per noi fissati con le serie tv, non si può sostenere AL DI LA’ DI OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO, che la parola significhi solo ed esclusivamente fratelli biologici e non anche, semplicemente, “parenti” o “congiunti”.

Per quanto mi riguarda, penso questo: per le più antiche comunità cristiane la questione era meno importante, ma la convinzione che Gesù non avesse fratelli di sangue si diffuse tra i cristiani di lingua greca molto presto. Questo non sarebbe stato possibile se la parola avesse avuto un senso univoco nell’uso quotidiano della lingua. Le parole significano molte cose e alle stesse parole diamo molti significati. E questo in pratica significa che su molti argomenti nessuno può avere, appunto, l’ultima parola.

Per chi, come me, professa la fede cattolica, la conclusione non è traumatica, ma illuminante. Questo infatti è un tipico caso in cui per interpretare la Scrittura viene in soccorso la Tradizione. Ma di questo parleremo ancora.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Foto:
@caitlinjoyhanson

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