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Non ci indurre in tentazione

“Non ci indurre in tentazione” non è una buona traduzione. L’ha detto anche papa Francesco. Ma davvero allora abbiamo pregato il Padre Nostro nella maniera sbagliata?

L’espressione “non ci indurre in tentazione” mette a disagio, perché, nel nostro sentire comune, giustamente pensiamo a Dio come colui che soccorre e sostiene nella tentazione. Come un Padre che solleva dalle cadute, non come qualcuno che le provoca.

La traduzione della CEI ha già corretto il Padre nostro nel 2008, con l’espressione: “non abbandonarci alla tentazione”. Però, a dire la verità, anche questa traduzione solleva dei problemi.

In tutta onestà, secondo me, espressioni del tipo “non ci abbandonare” o “non ci lasciare nella tentazione” sono traduzioni che suonano molto bene, ma fanno altrettanta fatica ad afferrare il senso originale.

Qual è allora la traduzione migliore?

Qui bisogna dire due cose:

  • Non esiste una traduzione perfetta, perché ogni traduzione è anche un po’, inevitabilmente, un’interpretazione;
  • Non è tanto importante la traduzione. È molto più importante capire che cosa abbiamo in mente quando diciamo certe parole. Cioè l’intenzione che mettiamo nelle parole. E questo vale, soprattutto, ovviamente, per le parole di una preghiera.

Vi dico la mia. La traduzione più vicina al senso originale non dovrebbe andare lontano da questa:

“non introdurci nella prova”.

Ed ecco il perché.

L’espressione originale greca è

mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn

che San Girolamo tradusse nella Vulgata con la famosa espressione

et ne nos inducas in tentationem

dalla quale deriva, a sua volta, il nostro tradizionale “non ci indurre in tentazione”, che, come si vede, più che una traduzione è una trasposizione parola per parola che suona allo stesso modo. Praticamente un latinismo.

Letteralmente l’espressione greca eisenenkes, tradotta da San Girolamo con “inducas”, vuol dire “condurre dentro”, “far entrare”. Quindi più che “indurre”, che è in questo caso un latinismo, cioè una ripresa del suono della parola latina, dovremmo dire “introdurre”.

Ma non dobbiamo fermarci qui. I guai cominciano in realtà quando trascuriamo di cercare una traduzione accurata anche per la seconda espressione, altrettanto importante: tentazione.

La parola tentazione infatti si presta ad equivoci.

Il greco peirasmòn, è tradotto, sempre da San Girolamo con “tentatio” che poi in Italiano diventa, appunto, “tentazione”.

Gran parte del problema dipende dal senso attribuito a questo termine.

Il linguaggio comune associa la parola “tentazione” a una forma di seduzione, all’istigazione a compiere qualcosa di illecito, approfittando dell’inclinazione umana a fare il male, a peccare.

In questo senso – nel nostro immaginario collettivo, cioè nella nostra cultura condivisa – si tratta di un compito attribuito al diavolo che sfrutta le nostre debolezze per farci cadere.

Presa in questo senso, l’espressione “indurre in tentazione” suona totalmente fuori posto.

Dio non può certo volere il nostro peccato o la nostra caduta, perciò non è pensabile che ci abbandoni al male, in qualunque forma si presenti. Da qui nascono tutte le perplessità.

Allora, il termine peirasmos, tentatio, più che con “tentazione”, dovremmo tradurlo con il termine “prova”, nel senso di proprio di test, di verifica, di collaudo, di esame.

“Prova” evoca un campo semantico diverso da “tentazione”, perché se è vero che Satana è il tentatore per eccellenza e altrettanto vero che Dio spesso non risparmia all’uomo il momento della prova. Dio mette alla prova la fede di Abramo. Dio mette alla prova la pazienza di Giobbe. Ogni personaggio gradito a Dio nella Bibba passa attraverso il momento della verifica, così come ogni santo, così come nella vita di ogni cristiano, così come nella vita di ogni uomo.

Gesù stesso è condotto dallo Spirito nel deserto per essere messo alla prova. Essere sottoposti alla prova, è parte della condizione umana.

La vita stessa è in un certo senso come un collaudo, un test, un esame che non possiamo evitare.

È un concetto facile, comune, che è parte dell’esperienza di tutti. “Gli esami non finiscono mai”, dice il titolo dell’ultima commedia scritta dal grande Eduardo De Filippo, che, non a caso, è diventata anche un detto popolare.

Anche chi ha problemi con la fede lo può capire facilmente: la vita mette alla prova tutto: gli amori, le amicizie, i legami, le nostre convinzioni, ciò in cui crediamo, il valore stesso delle nostre azioni e dei nostri propositi.

Ditelo per esempio a un soldato al fronte, o a un uomo che affronta una dura malattia, o a chi vive una perdita, un lutto, un momento difficile della vita. Dio non vuole il nostro male, ma non risparmia quasi a nessuno momenti duri. A nessuno viene risparmiato il peso della sua croce. Una croce, più o meno visibile, è posta, prima o poi sulle spalle di tutti. E nel corso della vita di ciascuno ci sono prove più semplici e prove più difficili, a volte quasi insopportabili.

Il fatto che Gesù abbia insegnato a pregare con le parole: “Non farci entrare nella prova” allora diventa più comprensibile. Quello che viene chiesto a Dio è di non essere provati dalla croce, dal dolore. Perché cercare di evitare le prove nella vita è naturale come chiedere il nutrimento per la vita.

Il credente chiede a Dio di poter evitare le prove più dure dopo aver appena chiesto anche che “sia fatta la sua volontà”.

È una preghiera perfettamente cristiana perché è quello che Gesù stesso, secondo i Vangeli, ha chiesto al Padre durante tutta la sua esistenza, fino al momento più drammatico della sua vicenda.

Ed è esattamente questo quello che Gesù insegna a chiedere: che ci sia risparmiato il momento della prova, soprattutto di quella più dura, difficile, quella che temiamo di più e che abbiamo paura di non essere in grado di sopportare: la prova del dolore, della privazione, della separazione. Qualcosa che sappiamo che ha chiesto anche lui per se stesso.

L’unico passo in cui compare nel Vangelo di Matteo la parola tentazione (e ricordate che Matteo è lo stesso che offre la versione completa del Padre Nostro che si usa normalmente) è il passo del capitolo 26: il momento dell’agonia di Gesù nel Getsemani. È il momento più duro per Gesù: l’inizio della sua prova definitiva, quella della sua passione.

Gesù prega di poterla evitare, ma, sottolinea “non come vorrei io, ma come vuoi tu”. Poi torna dai discepoli insonnoliti e li esorta a pregare, proprio per non cadere nel momento della prova. Quando, di nuovo solo, ricomincia a pregare, si affida al padre dicendo “sia fatta la tua volontà”. Ed è esattamente quello il momento in cui i suoi nemici vengono per arrestarlo. È esattamente quello il momento in cui comincia la sua “prova”, la sua ultima, più grande, tentazione.

Non si capisce il Padre Nostro se non si capisce che essa non è solo la preghiera che ha insegnato ai suoi discepoli, ma anche quella con cui lui stesso si è rivolto al Padre per tutta la sua vita. Il padre nostro è il Vangelo stesso che diventa preghiera e viene messo sulle labbra del credente.

Per concludere: “non introdurci nella prova” – o come ha deciso di tradurre la conferenza episcopale francese, che è quella che il papa indica ad esempio (notate non cita la Bibbia CEI) – “non lasciarci entrare nella prova”, evoca meglio il senso della frase della preghiera di Gesù.

Io personalmente credo che continuerò nel cuore a pregare con “non ci indurre in tentazione” non solo per abitudine, ma perché mi sento in grado di attribuire all’espressione, anche se imperfetta, il suo giusto senso.

Fatemi sapere che cosa ne pensate nei commenti.

Intanto, vi faccio una domanda: voi che cosa farete? Come direte il padre nostro d’ora in poi?

Bella a tutti

Per approfondire:

Autore: Gianmario Pagano

Scrittore, autore, sceneggiatore, insegnante, prete romano.

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