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Potete anche credere che l’inferno non c’è, ma…

…nessuno può negare che c’è stato.

Era al centro dell’Europa, in quello che oggi è il territorio della Polonia, in una cittadina che si chiama Oswiecim, che oggi conosciamo tutti con il nome di Auschwitz.

Sono stato più volte, nel corso degli anni, a visitare Auschwitz, che si trova a due passi dalla meravigliosa città di Cracovia, e non mi sono mai abituato a vedere quello che lì ancora si può vedere.

Le montagne di valigie e di scarpe dei prigionieri, i mucchi dei loro effetti personali, occhiali e spazzolini, gettati in delle fosse. Montagne di capelli. Vite vissute, tracce di esistenza quotidiana calpestate, ma non cancellate. Perché è tutto ancora lì. Non c’è nessun silenzio degli innocenti. Perché gli innocenti gridano nella nostra memoria, non sono silenziosi.

Il museo presenta la ricostruzione dei forni crematori, che potete trovare ovunque su internet, ma che lì acquisiscono un’aura di terribile immediatezza. Così come la ricostruzione della vita, forse ancora più dura della morte, di coloro che non venivano condotti alle camere a gas e costretti ai lavori forzati.

Auschwitz è in tutto e per tutto una specie di epifania del male.

La rivelazione di un male supremo, assoluto, disumano, il regno della disperazione e dell’odio, dove la morte era applicata sistematicamente come in una macabra catena di montaggio.

La stazione dei famosi treni, i vagoni dei prigionieri, i binari che conducevano alla morte, i forni crematori, i plastici che mostrano come si moriva nelle camere a gas e come i prigionieri stessi fossero costretti a occuparsi dei cadaveri degli altri prigionieri.

Tutto è orribile e induce orrore e disgusto.

L’umanità si è macchiata di crimini orribili, ma mai questo lato oscuro si è manifestato con tanta forza e disprezzo per la vita. In un modo così evidente, vicino, ancora accessibile. Puoi andarci, puoi vederlo, puoi toccarlo, perché non si tratta di un mito lontano della storia, ma di qualcosa accaduta ieri. È come se si potesse provare più facilmente l’esistenza di Satana di quella di Dio.

Eppure ricordo che, la prima volta che lo visitai – e da allora ogni volta che ci torno – ad Auschwitz è possibile essere improvvisamente, per un solo istante, toccati da un raggio di sole. Rischiarati da una luce che si ostina a fendere quel buio e lo rifiuta, ultimo avamposto testardo della nostra, altrimenti perduta, umanità.

E questo in uno dei posti più tremendi che si possano immaginare: il bunker della fame.

Il bunker della fame era una cella tre x tre, senza finestre, a parte una presa d’aria, con una porta metallica. Quando si voleva punire qualcuno e farlo morire con la più atroce delle torture, si chiudeva lì e si lasciava, al buio, lì finché non sopravveniva lo sfinimento, appunto, per fame.

Anche questo, si può visitare ancora. Solo che ci trovate un grande cero. Alto un metro e mezzo, che viene sempre tenuto acceso. Perché è il luogo dove, il 14 agosto del 1941, proprio la vigilia di Ferragosto di 76 anni fa, è avvenuto un fatto straordinario, un miracolo di umanità.

Un gruppo di prigionieri del blocco 14 del campo, un centinaio di uomini, era stato destinato a lavorare nei campi, per la mietitura. Uno di questi, rocambolescamente, era riuscito a sfuggire alle guardie e a mettersi in salvo.

La legge del campo, però, era spietata. In casi come questo era prevista la decimazione. Cioè uno se dieci doveva essere messo a morte.

I prigionieri del blocco 14 furono perciò messi in fila e selezionati, semplicemente contando, partendo da uno a caso. In tutto dieci uomini, destinati al bunker della morte.

Un altro prigioniero, però, inaspettatamente, senza esitare, senza paura, si fece avanti, con grande stupore degli altri e persino delle SS, che non erano abituati a vedere il coraggio. Il prigioniero si chiamava Raimondo Kolbe, ma siccome aveva preso i voti come Francescano, aveva deciso di farsi chiamare Massimiliano.

Massimiliano, senza esitare chiese di morire al posto di un altro prigioniero, di nome Franciszek, un militare polacco. I due si conoscevano ovviamente, e Massimiliano sapeva che Franciszek era un padre di due figli con una moglie che non aveva perso la speranza di rivederlo.

Semplicemente, prese la parola e chiese di morire al posto suo. Il kapò lo scrutò per un attimo, sorpreso, ma, senza aggiungere nulla, accettò.

Massimiliano e altri nove prigionieri furono chiusi così nel bunker. Passarono lì dentro due settimane, senza cibo, acqua e luce. Lo stupore degli aguzzini crebbe, perché anziché bestemmie e urla di disperazione, come erano abituati a sentire, ascoltarono provenire, da dentro la cella, solo preghiere e canti. Massimiliano era riuscito a dare a tutti, in quell’oscurità, il coraggio di morire con dignità, valore, e persino con fede ai suoi compagni condannati allo stesso mostruoso destino.

Alla fine, i nazisti si decisero ad aprire la cella. Erano rimasti vivi, nonostante tutto, ancora in quattro. Furono uccisi con una iniezione di acido. Massimiliano per ultimo. Secondo Hans Blok, il prigioniero che fu costretto ad ucciderlo, Massimiliano porse il braccio e disse semplicemente, con un filo di voce: “L’odio non serve a niente. Solo l’amore crea”. E morì, salutando la madre di Cristo: “Ave Maria”.

Potete essere credenti o non credenti. Ma di fatto, quel giorno ad Auschwitz, accadde un miracolo. Un miracolo di umanità. Nel luogo dove tutto ciò che è umano veniva sistematicamente cancellato, dove non c’era più dignità, rispetto, pensiero. Dove l’odio distruttore regnava sovrano, un uomo era stato capace di morire volontariamente al posto di un altro.

Massimiliano Maria Kolbe, era un religioso, uno studioso, un radioamatore, un operatore umanitario, era stato per anni missionario in Giappone, aveva scuole ed ospedali, era un giornalista, scrittore, fondatore di un periodico che stampava milioni di copie. Era stato considerato un nemico del regime nazista.

Ma quel giorno, nel profondo delle tenebre, Massimiliano fu, soprattutto, un uomo.

Dove non c’erano più uomini, ma solo mostri o figure di manichini nudi.

Massimiliano Kolbe. Un raggio di luce nel buio di Auswitz.

E quel raggio di luce splende ancora.

Per approfondire:

Leggere Marco, tutto d’un fiato

Fatevi un regalo: leggetevi il Vangelo di Marco. Tutto. Integralmente. Di seguito e, possibilmente, senza interruzioni. Soprattutto senza capitoli e versetti. È nato così, per essere letto così. Da soli o in piccoli gruppi. Marco non pensava al catechismo o al lezionario, o ai dibattiti dei teologi, ma a un unico racconto da recepire e trasmettere come un’esperienza indivisa.

Ogni tanto, fatevi un regalo. Un regalo di grande valore ma che non potete comprare. Un regalo che non vi costa nulla, a parte la vostra cosa più preziosa: il tempo. Neanche tanto, in verità.

Prendete in mano il Vangelo di Marco e leggetelo.

Ma non fate come si fa in Chiesa o al catechismo, o come si fa su internet. Dove il Vangelo si fa, letteralmente, a pezzi.

Di solito, quando leggiamo, se lo facciamo, ne prendiamo un “brano” – notate come è brutta questa parola: brano, cioè un pezzo strappato da un corpo, come quando un predatore sbrana una preda: quando leggiamo passi del Vangelo separatamente noi letteralmente lo sbraniamo, cioè lo facciamo a pezzi, strappandoli via da un racconto più organico.

Invece niente pezzi, niente brani: tutto.
Tutto insieme. Tutto d’un fiato. Tutto in un unico intervallo di tempo.
Approfittate della festa, di quel giorno libero in più che potete – forse – dedicare a voi stessi, o a qualcosa di grande valore.

Allora fate così.

Prendete il testo di Marco, non però dalle edizioni che trovate in giro. È un’operazione che potete fare a costo zero con ciascuno dei quattro vangeli, ma anche con qualunque libro della Bibbia. Se prendete un’edizione qualsiasi delle più diffuse, la trovate divisa in capitoli e versetti. Spesso anche con dei titoli inseriti che vogliono facilitare la lettura. Buttate tutto. Niente titoli, niente capitoli, niente versetti. Le citazioni in numeri servono per i teologi, ma servono meno per la lettura. Titoli capitoli e versetti, divisioni, numeri e numeretti sono stati aggiunti nel corso dei secoli dalla passione dei nostri antenati per la Bibbia, per valorizzarne ogni parola e ogni riga, ma oggi sono diventati per noi, più che un aiuto, un ostacolo.

Cercate su internet la versione che preferite e selezionatene tutto il testo. Ci sono innumerevoli siti che lo offrono, ovviamente, gratis. Poi, con il copia incolla, portate tutto il testo in un software di scrittura, come, per esempio, Word. Poi togliete tutti i titoli e, con l’aiuto della funzione trova-sostituisci, eliminiate tutti i numeri dei capitoli e dei versetti. Vi resterà solo il testo, nudo e crudo. In corpo 12 di un qualunque font, otterrete un testo di circa venti cartelle. Stampatelo per voi stessi, o fatevi un pdf. E leggetelo così. Nudo e crudo. Senza fronzoli. Come un unico racconto senza interruzioni, come un film che va visto tutto dall’inizio alla fine per essere goduto e compreso.

Se non vi va di fare quest’operazione, l’ho fatta io per voi, per il Vangelo di Marco. Trovate in una delle note della pagina, il testo del Vangelo di Marco, filtrato da ogni aggiunta e pronto per essere semplicemente gustato e letto, senza distrazioni. Potete leggerlo anche con il vostro cellulare.

Quando Marco scrisse il Vangelo lo scrisse come un’opera unica, senza divisioni, senza capitoli, senza numeri, indici, introduzioni o note. Lo scrisse come un unico documento che andava letto ad alta voce davanti a una comunità radunata che ascoltava tutto, dall’inizio alla fine, in piedi, dedicando a questo non più di un paio di ore scarse. Marco, e gli altri evangelisti, non pensavano al lezionario, pensavano a un’esperienza. Pensavano a un racconto coinvolgente che tenesse incollate molte persone, radunate tutte insieme in una casa, per una serata. Qualcosa che noi da secoli non facciamo più.

Eppure un Vangelo non è che questo: un unico, appassionante racconto.

Un attore che recitasse il Vangelo ad alta voce, ci metterebbe infatti meno di due ore a leggere tutto, dall’inizio alla fine. Se si legge con la mente, si può impiegare molto meno, anche mezz’ora e, se siete allenati o predisposti, persino pochi minuti.

Provate a farlo da soli. Oppure provate a farlo raccogliendo un piccolo gruppo di volenterosi. Oppure provate a proporlo alla vostra comunità di appartenenza, se ne frequentate una. Qualunque sia la vostra denominazione: cattolica o non cattolica. Regalatevi questa esperienza per Natale: un Vangelo nella sua interezza.

Se dovessi proporre una devozione per il cristiano degli anni duemila, proporrei esattamente questo: la lettura continuativa, ininterrotta, del Vangelo. A cominciare proprio da quello di Marco, il più antico, il primo dei quattro a essere scritto.

Esistono molte devozioni e pratiche personali. Questa è quella che vi suggerisco io. In verità non l’ho inventata io. Appartiene alla tradizione cristiana e si chiama “lectio divina”. Leggete e basta, non cercate subito di interpretare, di cercare concetti, di collegare passaggi biblici, di inquadrare le parole in uno schema teologico o dottrinale. Leggete, semplicemente. Lasciate che il testo del Vangelo vi entri nella mente, nella memoria, nell’anima, nella vita. Non commentate in cuor vostro, state alle parole stesse, come si sta con la mente a una preghiera. Lasciate che il Vangelo vi parli.

Solo una lettura continuativa può darci il sapore della visione d’insieme, farci cogliere il senso del dettaglio all’interno del tutto. Perché è un racconto unico, non un’antologia o una raccolta di testi. Nessuno di noi sopporterebbe di vedere un film una scena alla volta, magari in uno stillicidio che dura per anni, senza coerenza cronologica, a volte saltando di palo in frasca. Per forza poi non ricordiamo, non assimiliamo, non comprendiamo.

Leggere, da soli o in piccoli gruppi, di due o più, il testo del Vangelo tutto d’un fiato è ciò che somiglia di più all’esperienza che avevano in mente gli evangelisti quando li hanno scritti per i loro destinatari. E le esperienze non si possono a loro volta raccontare, ma vanno vissute. Facciamo perciò l’esperienza di gustare il racconto di Marco senza distrazioni, in un unico intervallo di tempo.

E quando avete finito? Ricominciate! Quante volte? Tutta la vita, se volete. Potete farne la vostra devozione personale.

Magari tenerlo sul comodino per leggere, leggere e poi rileggere, finché non vi è entrato nella pelle, nei muscoli, nelle ossa.

Le preghiere che recitiamo, se abbiamo fede, non sono anche parole che ripetiamo continuamente? Quante volte abbiamo ripetuto o detto il padre nostro? Oppure pensate alla preghiera cattolica del rosario. Ma quante volte abbiamo ripetuto il Vangelo intero? Non può essere il Vangelo intero una preghiera da ripetere e ripetere finché la nostra vita, senza nemmeno ce ne accorgiamo, cominci a somigliarci un po’?

È quello che auguro a tutti voi.

Bella a tutti.

Per approfondire:

Non ci indurre in tentazione

“Non ci indurre in tentazione” non è una buona traduzione. L’ha detto anche papa Francesco. Ma davvero allora abbiamo pregato il Padre Nostro nella maniera sbagliata?

L’espressione “non ci indurre in tentazione” mette a disagio, perché, nel nostro sentire comune, giustamente pensiamo a Dio come colui che soccorre e sostiene nella tentazione. Come un Padre che solleva dalle cadute, non come qualcuno che le provoca.

La traduzione della CEI ha già corretto il Padre nostro nel 2008, con l’espressione: “non abbandonarci alla tentazione”. Però, a dire la verità, anche questa traduzione solleva dei problemi.

In tutta onestà, secondo me, espressioni del tipo “non ci abbandonare” o “non ci lasciare nella tentazione” sono traduzioni che suonano molto bene, ma fanno altrettanta fatica ad afferrare il senso originale.

Qual è allora la traduzione migliore?

Qui bisogna dire due cose:

  • Non esiste una traduzione perfetta, perché ogni traduzione è anche un po’, inevitabilmente, un’interpretazione;
  • Non è tanto importante la traduzione. È molto più importante capire che cosa abbiamo in mente quando diciamo certe parole. Cioè l’intenzione che mettiamo nelle parole. E questo vale, soprattutto, ovviamente, per le parole di una preghiera.

Vi dico la mia. La traduzione più vicina al senso originale non dovrebbe andare lontano da questa:

“non introdurci nella prova”.

Ed ecco il perché.

L’espressione originale greca è

mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn

che San Girolamo tradusse nella Vulgata con la famosa espressione

et ne nos inducas in tentationem

dalla quale deriva, a sua volta, il nostro tradizionale “non ci indurre in tentazione”, che, come si vede, più che una traduzione è una trasposizione parola per parola che suona allo stesso modo. Praticamente un latinismo.

Letteralmente l’espressione greca eisenenkes, tradotta da San Girolamo con “inducas”, vuol dire “condurre dentro”, “far entrare”. Quindi più che “indurre”, che è in questo caso un latinismo, cioè una ripresa del suono della parola latina, dovremmo dire “introdurre”.

Ma non dobbiamo fermarci qui. I guai cominciano in realtà quando trascuriamo di cercare una traduzione accurata anche per la seconda espressione, altrettanto importante: tentazione.

La parola tentazione infatti si presta ad equivoci.

Il greco peirasmòn, è tradotto, sempre da San Girolamo con “tentatio” che poi in Italiano diventa, appunto, “tentazione”.

Gran parte del problema dipende dal senso attribuito a questo termine.

Il linguaggio comune associa la parola “tentazione” a una forma di seduzione, all’istigazione a compiere qualcosa di illecito, approfittando dell’inclinazione umana a fare il male, a peccare.

In questo senso – nel nostro immaginario collettivo, cioè nella nostra cultura condivisa – si tratta di un compito attribuito al diavolo che sfrutta le nostre debolezze per farci cadere.

Presa in questo senso, l’espressione “indurre in tentazione” suona totalmente fuori posto.

Dio non può certo volere il nostro peccato o la nostra caduta, perciò non è pensabile che ci abbandoni al male, in qualunque forma si presenti. Da qui nascono tutte le perplessità.

Allora, il termine peirasmos, tentatio, più che con “tentazione”, dovremmo tradurlo con il termine “prova”, nel senso di proprio di test, di verifica, di collaudo, di esame.

“Prova” evoca un campo semantico diverso da “tentazione”, perché se è vero che Satana è il tentatore per eccellenza e altrettanto vero che Dio spesso non risparmia all’uomo il momento della prova. Dio mette alla prova la fede di Abramo. Dio mette alla prova la pazienza di Giobbe. Ogni personaggio gradito a Dio nella Bibba passa attraverso il momento della verifica, così come ogni santo, così come nella vita di ogni cristiano, così come nella vita di ogni uomo.

Gesù stesso è condotto dallo Spirito nel deserto per essere messo alla prova. Essere sottoposti alla prova, è parte della condizione umana.

La vita stessa è in un certo senso come un collaudo, un test, un esame che non possiamo evitare.

È un concetto facile, comune, che è parte dell’esperienza di tutti. “Gli esami non finiscono mai”, dice il titolo dell’ultima commedia scritta dal grande Eduardo De Filippo, che, non a caso, è diventata anche un detto popolare.

Anche chi ha problemi con la fede lo può capire facilmente: la vita mette alla prova tutto: gli amori, le amicizie, i legami, le nostre convinzioni, ciò in cui crediamo, il valore stesso delle nostre azioni e dei nostri propositi.

Ditelo per esempio a un soldato al fronte, o a un uomo che affronta una dura malattia, o a chi vive una perdita, un lutto, un momento difficile della vita. Dio non vuole il nostro male, ma non risparmia quasi a nessuno momenti duri. A nessuno viene risparmiato il peso della sua croce. Una croce, più o meno visibile, è posta, prima o poi sulle spalle di tutti. E nel corso della vita di ciascuno ci sono prove più semplici e prove più difficili, a volte quasi insopportabili.

Il fatto che Gesù abbia insegnato a pregare con le parole: “Non farci entrare nella prova” allora diventa più comprensibile. Quello che viene chiesto a Dio è di non essere provati dalla croce, dal dolore. Perché cercare di evitare le prove nella vita è naturale come chiedere il nutrimento per la vita.

Il credente chiede a Dio di poter evitare le prove più dure dopo aver appena chiesto anche che “sia fatta la sua volontà”.

È una preghiera perfettamente cristiana perché è quello che Gesù stesso, secondo i Vangeli, ha chiesto al Padre durante tutta la sua esistenza, fino al momento più drammatico della sua vicenda.

Ed è esattamente questo quello che Gesù insegna a chiedere: che ci sia risparmiato il momento della prova, soprattutto di quella più dura, difficile, quella che temiamo di più e che abbiamo paura di non essere in grado di sopportare: la prova del dolore, della privazione, della separazione. Qualcosa che sappiamo che ha chiesto anche lui per se stesso.

L’unico passo in cui compare nel Vangelo di Matteo la parola tentazione (e ricordate che Matteo è lo stesso che offre la versione completa del Padre Nostro che si usa normalmente) è il passo del capitolo 26: il momento dell’agonia di Gesù nel Getsemani. È il momento più duro per Gesù: l’inizio della sua prova definitiva, quella della sua passione.

Gesù prega di poterla evitare, ma, sottolinea “non come vorrei io, ma come vuoi tu”. Poi torna dai discepoli insonnoliti e li esorta a pregare, proprio per non cadere nel momento della prova. Quando, di nuovo solo, ricomincia a pregare, si affida al padre dicendo “sia fatta la tua volontà”. Ed è esattamente quello il momento in cui i suoi nemici vengono per arrestarlo. È esattamente quello il momento in cui comincia la sua “prova”, la sua ultima, più grande, tentazione.

Non si capisce il Padre Nostro se non si capisce che essa non è solo la preghiera che ha insegnato ai suoi discepoli, ma anche quella con cui lui stesso si è rivolto al Padre per tutta la sua vita. Il padre nostro è il Vangelo stesso che diventa preghiera e viene messo sulle labbra del credente.

Per concludere: “non introdurci nella prova” – o come ha deciso di tradurre la conferenza episcopale francese, che è quella che il papa indica ad esempio (notate non cita la Bibbia CEI) – “non lasciarci entrare nella prova”, evoca meglio il senso della frase della preghiera di Gesù.

Io personalmente credo che continuerò nel cuore a pregare con “non ci indurre in tentazione” non solo per abitudine, ma perché mi sento in grado di attribuire all’espressione, anche se imperfetta, il suo giusto senso.

Fatemi sapere che cosa ne pensate nei commenti.

Intanto, vi faccio una domanda: voi che cosa farete? Come direte il padre nostro d’ora in poi?

Bella a tutti

Per approfondire:

I fratelli e le sorelle di Gesù

Molti passi del Nuovo Testamento menzionano i fratelli e le sorelle di Gesù. Come la mettiamo con “Maria sempre vergine”?

Al contrario di quanti molti possano pensare, l’argomento non è un tabù, anche perché tutti e quattro i vangeli ne parlano, in occasioni diverse. Facciamo qualche esempio.

Il passo più famoso è forse quello di Mc 3, dove si racconta che i fratelli di Gesù lo vanno a cercare perché pensano che sia completamente impazzito. Il passaggio è ripreso quasi letteralmente sia da Matteo sia da Luca.

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano» (Mc 3, 31-32).

L’evangelista Marco li menziona di nuovo, ripreso quasi letteralmente da Matteo, quando parla della prima reazione della gente di Nazareth alla predicazione di Gesù.

Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui (Mc 6, 3).

Ma anche il vangelo di Giovanni ne parla apertamente, dopo il racconto delle nozze di Cana. Del resto, un matrimonio è un tipico evento cui si partecipa con tutta la famiglia.

Dopo questo fatto [le nozze a Cana], [Gesù] discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo pochi giorni (Gv 2, 12).

Gli stessi fratelli, sempre nel vangelo di Giovanni, ritornano in scena più tardi, al capitolo 7, quando assistiamo a un vero e proprio litigio familiare.

I fratelli stavolta spingono Gesù a manifestarsi apertamente a Gerusalemme in occasione della grande festa di Succoth, per conquistare una volta per tutte il favore della folla che si radunerà nella Città Santa. Gesù è in disaccordo e mostra di voler essere molto più prudente.

I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui (Gv 7, 3-6).

Oltre ai Vangeli, gli Atti degli Apostoli menzionano di nuovo i fratelli di Gesù come parte della comunità primitiva che si radunava in preghiera con i discepoli e la madre di Gesù.

San Paolo, nelle sue lettere, ne parla in due occasioni. Quando professa di aver scelto liberamente di non sposarsi e di non portarsi dietro una moglie nei suoi viaggi, come invece fanno Pietro e i fratelli di Gesù – andate a vedere 1Cor 9, 5 – o quando menziona Giacomo definendolo “il fratello del Signore” all’inizio della lettera ai Galati.

Insomma, sì, Gesù aveva fratelli e ne conosciamo anche i nomi, sappiamo che uno di loro, Giacomo, è stato vescovo della Chiesa di Gerusalemme, mentre poco o nulla sappiamo delle sue sorelle.

Allora, ovviamente, viene spontanea la domanda: ma Maria, la madre di Gesù, ha partorito altri figli?

La fede nella verginità di Maria, cioè il fatto che dopo Gesù Maria non abbia avuto altri figli, la troviamo espressa dagli scrittori cristiani fin dal II secolo ed è sempre stata una convinzione profonda di gran parte dei cristiani fino a essere formulata definitivamente dal Secondo Concilio di Costantinopoli nel 553.

Contrariamente a quanto si crede, la Riforma protestante non cambiò idea su questo argomento.

Non solo lo stesso Lutero, ma altri grandi riformatori come Zwingli e, più tardi, John Wesley, conservarono, insieme alla fede tradizionale nel concepimento di Maria senza opera umana, quella nella sua verginità anche dopo la nascita di Gesù. Del resto, questa era stata la fede condivisa della Chiesa, orientale e occidentale, per almeno 1500 anni.

E oggi?

Oggi ci possiamo imbattere in tre diverse interpretazioni.

La prima risale a Tertulliano e sembra la più ovvia: Gesù aveva fratelli e sorelle biologici, del suo stesso sangue. Questa opinione è oggi seguita da diversi studiosi, soprattutto nel mondo protestante.

La seconda è quella, che a me piace molto, sostenuta da altri nomi illustri come Origene, Eusebio, Gregorio di Nissa, secondo la quale si trattava a tutti gli effetti di fratelli, ma non della stessa madre. Cioè, in pratica, fratelli provenienti da un precedente matrimonio di Giuseppe o fratelli adottivi subentrati successivamente. Senza escludere il fatto che le famiglie antiche non erano come diciamo oggi, “mononucleari”, cioè formate da padre madre e figli, ma comunità numerose formate da diverse coppie che mettevano in comune lo stesso pane, gli stessi ambienti e spesso gli stessi figli. Quindi considerarsi e chiamarsi fratelli, anche tra cugini di vario grado, era uso normale.

Da questa seconda possibilità ne discende una terza, che fu proposta da San Girolamo, il più famoso studioso dei testi originali ebraici e greci e il grande traduttore della Bibbia latina: i fratelli di Gesù devono intendersi semplicemente come cugini o congiunti, in pratica, parenti. Girolamo esprime le sue ragioni in un lavoro intitolato “Contro Elvidio” che potete voi stessi trovare on line. Il suo argomento principale è che fratelli in ebraico e greco si può tradurre anche “cugino” e Maria, la madre di Gesù, aveva in effetti una sorella che si chiamava con lo stesso nome.

Come potete capire da soli, le diverse opinioni in questo caso dipendono dai rispettivi presupposti.

Il motivo è semplice: le parole fratello e sorella hanno in tutte le lingue, non solo in ebraico e greco, un campo semantico molto ampio. Cioè vogliono dire molte cose diverse.

Per esempio, in ebraico, fratello si dice “‘ach”, ma nelle ricorrenze che abbiamo nella bibbia troviamo questa parola usata per dire, ovviamente, fratello biologico

  • Congiunto, appartenente a una stessa famiglia
  • Compaesano o compatriota, appartenente a una stessa comunità
  • Isreaelita (appartenente al popolo di Israele)
  • Correligionario, cioè membro di una stessa religione

E così via. La stessa cosa, più o meno, senza dilungarmi, avviene con la parola greca “adelphos” (fratello), sia nei testi della letteratura classica greca sia nella Bibbia greca dei LXX. Platone, per esempio chiamava adelphòi, cioè “fratelli”, i propri connazionali e Plotino tutti gli esseri

Anche oggi, nelle lingue moderne, diciamo fratello in molti sensi diversi. Un mio caro amico americano, tanto per fare un esempio, chiama “brother” senza esitazione e ambiguità – trattandolo come tale –  un compagno d’infanzia.

In parole povere, qualunque sia la vostra convinzione al riguardo, per usare una terminologia forense, ma che funziona bene per noi fissati con le serie tv, non si può sostenere AL DI LA’ DI OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO, che la parola significhi solo ed esclusivamente fratelli biologici e non anche, semplicemente, “parenti” o “congiunti”.

Per quanto mi riguarda, penso questo: per le più antiche comunità cristiane la questione era meno importante, ma la convinzione che Gesù non avesse fratelli di sangue si diffuse tra i cristiani di lingua greca molto presto. Questo non sarebbe stato possibile se la parola avesse avuto un senso univoco nell’uso quotidiano della lingua. Le parole significano molte cose e alle stesse parole diamo molti significati. E questo in pratica significa che su molti argomenti nessuno può avere, appunto, l’ultima parola.

Per chi, come me, professa la fede cattolica, la conclusione non è traumatica, ma illuminante. Questo infatti è un tipico caso in cui per interpretare la Scrittura viene in soccorso la Tradizione. Ma di questo parleremo ancora.

Bella a tutti!

Per approfondire:

Foto:
@caitlinjoyhanson

Perché dimentichi quello che studi?

Passiamo tempo a studiare (si spera), ma poi dimentichiamo quasi tutto. Come mai? Perché è più facile ricordare la formazione della squadra del cuore che i nomi dei dodici apostoli? Forse perché studiare… non è solo studiare!

Perché dimentichi quello che hai studiato?

Quando spiego il Pentateuco che – detto tra parentesi – è il nome che si dà ai primi cinque libri della Bibbia – quelli che formano la Torah ebraica – dico sempre: mi raccomando voglio che ricordate i nomi, in ordine, dei questi primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.

Li ho detti adesso una volta e poi facciamo un test. Cioè vi interrogo: vediamo se li ricordate alla fine del video…

Comunque è un elenco di soli cinque nomi, e quasi sempre, il cento per cento delle volte, l’alunno chiamato per primo fallisce al primo tentativo. Eppure è solo un elenco di cinque nomi, mica l’elenco telefonico.

Qualcuno dice che dovremmo tornare a imparare a memoria. Che dovremmo esercitarci di più. Tornare a studiare magari i canti di Dante e impararli tutti interi.

In effetti molti di noi ricordano alcuni passi fissati in modo indelebile durante il periodo della scuola:

Solo e pensoso i più diserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti,
E gli occhi porto per fuggire intenti
Ove vestigia uman l’arena stampi…

Un momento… ma questo è Petrarca, non è Dante… Perché mi ricordo Petrarca? Boh, non lo so nemmeno io…

Però è vero: esercitiamo poco la memoria e difficilmente oggi siamo incentivati a usarla. Il telefonino, insieme a Internet, è diventata la nostra memoria.

Ma è vero che ci stiamo atrofizzando e che il nostro cervello diventa sempre più piccolo, come quello di Homer Simpson?

Può darsi il problema sia anche questo, ma credo ci sia un aspetto più importante.

Vi dico la mia. Allo stesso ragazzo che non ricorda i primi cinque libri della Bibbia faccio una domanda più facile: “di che squadra sei?”. E quello: “della Roma”. Ovviamente, mi illumino d’immenso anche io, ma a bruciapelo gli domando: “Ti ricordi la formazione con cui è entrata in campo domenica scorsa?”. E quello parte senza esitare:

ROMA (4-2-3-1) – Szczesny; Rudiger, Manolas, Fazio, Emerson; De Rossi, Strootman; Salah, Nainggolan, El Shaarawy; Dzeko. All. Spalletti.

Non solo: si ricorda i risultati di tutte le partite della stagione e i cambi della squadra nel primo e nel secondo tempo. Ma non si limita a ricordare le formazioni del calcio reale, ricorda pure quelle del Fantacalcio e della Playstation durante tutto l’ultimo mese.

Ma sono sicuro di una cosa: sarebbe una cosa molto più difficile per un non tifoso ricordare tutto questo…

Un vero appassionato di calcio forse ricorderà persino tutti i calciatori di serie A. Non è impossibile. Da bambino, quando facevo le figurine, persino li conoscevo tutti, anche se avevo problemi con la geografia e l’elenco delle regioni Italiane (Ps: dimenticavo sempre il Molise e la Valle d’Aosta).

Non è poca roba da ricordare. Ci sono in un campionato di calcio più numeri quanti ce ne sono nella tavola degli elementi.

Dove voglio andare a parare? Voglio dire che la chiave della memoria non sono gli omega 3, sono le emozioni. Quello che ci piace, ci appassiona, ci emoziona, ci coinvolge, lo ricordiamo molto facilmente, spesso anche senza nessuno sforzo.  La memoria non è una RAM, un contenitore, un armadio o uno scaffale su cui mettiamo cose. Forse somiglia di più proprio a un album di figurine che non vediamo l’ora di riempire, perché siamo appassionati.

La parola latina “studeo”, da cui il nostro “studiare”, ha un significato che abbiamo, anche quello dimenticato (forse perché non amiamo il latino?).

Studére si traduce in italiano ANCHE con “studiare”, ma i prof di latino che vedranno questo video sapranno certamente che significa anche DESIDERARE, AMARE o PRENDERSI CURA.

Dante diceva: “non fa scienza, senza lo ritener, l’aver inteso”, cioè una cosa non la sai davvero se hai capito ma non la ricordi. Ma ricordare è, appunto, “ritenere”, “trattenere” e uno trattiene nella mente solo le cose che ama e desidera trattenere, perché non vuole perderle, non vuole lasciarle andare.

Insomma, per ricordare, devi studiare, cioè devi amare, desiderare di possedere quello che vuoi imparare.

A questo punto viene il difficile: come faccio a studiare e a ricordare quello che non mi piace. Se per te sarà una tortura, sarà possibile ricordare qualcosa a furia di ripetere, ma sarà molto molto pesante. Se invece ami una materia, imparerai e ricorderai con poco o minimo sforzo.

Quindi, per ottenere buoni risultati, non dovresti solo preoccuparti di studiare, materialmente, ma dovresti di farti piacere quello che studi. Se studiare non è per te amare, sarà quasi impossibile riuscire.

E qui si capisce allora a che cosa servono i buoni insegnanti. L’insegnante è un mestiere difficile non perché sia difficile spiegare, cioè presentare i contenuti della conoscenza, ma perché non è sempre facile innamorare alla conoscenza.

Il bravo insegnante è colui che trasmette la sua passione per ciò che studia, che continua a studiare e non smette di amare ciò che insegna.

Studiare è amare, e amare è desiderio di possedere, di trattenere e perciò ricordare, anche a lungo termine, diventa più facile.

E adesso passiamo all’interrogazione. Qual era la domanda…?

Non la ricordate più. Allora, da vero prof bastardo, la cambio: sapete i nomi dei dodici apostoli?

Allora…

Ah sì, gli apostoli…

Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo… Paolo, Giuda… no, Giuda non ci va? Ah sì, sono due… Ma il traditore ci va…? Boh, che confusione.

… Anche San Paolo, no? O sì…?

Vabbe’… ne riparliamo.

Bella a tutti!

Per approfondire:

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