Come mai un nome di origine orientale come “Ciro” è ancora diffuso a Napoli? Molti sanno che si deve alla devozione a San Ciro di Alessandria, un medico egiziano degli inizi del IV secolo che curava gratuitamente i poveri. Ma quello che forse alcuni non sanno è che questa devozione si è radicata a Napoli, e propagata in tutto il Sud, in tempi relativamente recenti, grazie anche ai gesuiti e, in particolare, a un loro campione: Francesco de Geronimo.
Nato il 17 dicembre 1642 a Grottaglie, nei dintorni di Taranto, Francesco de Geronimo entrò a sedici anni nel collegio gestito dalla Compagnia di Gesù. Qui studiò umanità e filosofia e si distinse per tali doti che il suo vescovo lo mandò a Napoli per seguire lezioni di teologia e diritto canonico nel celebre collegio del Gesù Vecchio, uno dei più rinomati d’Europa. Fu ordinato prete il 18 marzo 1666. Dopo aver passato quattro anni da educatore al collegio dei nobili a Napoli, entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù il 1° luglio 1670.
Questo sacerdote pugliese trapiantato a Napoli, di alta statura, con un’ampia fronte, grandi occhi scuri, un naso aquilino e un viso pallido che testimoniava le sue pratiche ascetiche, aveva il dono di una parola convincente. Francesco desiderava andare a lavorare e, come diceva spesso, forse anche a sacrificare la sua vita, in Estremo Oriente. Scriveva frequentemente ai suoi superiori, implorandoli di concedergli quel grande favore. Alla fine, però, gli dissero di abbandonare del tutto l’idea e di concentrare il suo zelo e la sua energia sul Regno di Napoli. Così, per quarant’anni, dal 1676 fino alla sua morte, la città e i dintorni di Napoli divennero il centro del suo lavoro.
Era un predicatore infaticabile. Spesso si diceva che parlasse quaranta volte in un solo giorno. Sceglieva quelle strade che sapeva essere il centro di qualche crimine o scandalo. I suoi discorsi brevi, energici ed eloquenti toccavano le coscienze dei suoi ascoltatori, operando straordinarie conversioni.
Le sue missioni erano svolte quasi sempre all’aperto e nei quartieri più bassi. La gente si precipitava per incontrarlo. “E’ nu’ ciuccio quanno parl’, nu’ liun’ quanno pridic’!”, dicevano (mi perdonino i napoletani la ricostruzione ipotetica della loro lingua nel Seicento).
Aveva la reputazione di essere un operatore di miracoli, e i suoi biografi, così come coloro che testimoniarono durante il processo canonico, non esitarono ad attribuirgli una moltitudine di guarigioni di ogni genere. Ma Francesco de Geronimo attribuiva al medico martire Ciro di Alessandria tutti i prodigi che operava. Durante le sue prediche ne portava sempre con sé alcune reliquie in una teca e le usava per benedire i malati.
È grazie a lui se la celebrazione religiosa del 31 gennaio in memoria del martirio di San Ciro ebbe inizio nell’anno 1693, come risulta anche da documenti scritti di suo pugno.
I suoi funerali furono per i napoletani l’occasione di una processione trionfale. Sarebbe stato beatificato immediatamente, se non fosse stato per la tempesta che poco dopo assalì la Compagnia di Gesù e che terminò nella sua soppressione. Pio VII non poté procedere con la beatificazione fino al 2 maggio 1806; e Gregorio XVI lo canonizzò solennemente il 26 maggio 1839.
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