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Coniglio o papera?

Vedete un coniglio o una papera?

Questo disegno comparve per la prima volta nel 1892 su una rivista umoristica tedesca. La didascalia, sopra, dice: “Quali animali si somigliano di più?” e, sotto, la risposta: “Il coniglio e la papera”. La figura fu ripresa tale e quale dallo psicologo Joseph Jastrow, che amava studiare le illusioni ottiche, ma fu resa famosa da uno dei più grandi pensatori del XX secolo, di cui oggi si celebra la nascita: Ludwig Wittgenstein.

Ludwig non è stato un santo e, anche se nato ed educato cattolico, ha avuto nel corso della sua vita un rapporto complesso e difficile con la religione. Tuttavia, il suo pensiero, incentrato sullo studio del linguaggio, ha avuto un influsso profondissimo sulla teologia e l’esegesi biblica.

Nato il 26 aprile 1889 a Vienna, in Austria, in una famiglia benestante e colta. Era l’ultimo di otto fratelli. Suo padre, Karl Wittgenstein, era un industriale di successo nel settore dell’acciaio, mentre sua madre, Leopoldine Kalmus, proveniva da una famiglia di musicisti e intellettuali.

Il giovane Wittgenstein inizialmente studiò ingegneria meccanica in Germania e in seguito si trasferì a Manchester, in Inghilterra, per studiare ingegneria aeronautica. Tuttavia, ben presto, entrato in conflitto con il padre che aveva grandi aspettative di successo su di lui, sviluppò un interesse per la matematica e la filosofia e decise di studiare sotto la guida del filosofo e logico Bertrand Russell presso l’Università di Cambridge.

Durante la Prima Guerra Mondiale, Wittgenstein si arruolò nell’esercito austro-ungarico e combatté sul fronte sud, contro gli italiani. Fu durante il suo servizio militare che, incredibile oggi il solo pensarlo, scrisse gran parte del suo primo lavoro filosofico che lo consegnò alla storia del pensiero, il “Tractatus Logico-Philosophicus”.

Dopo la guerra, Wittgenstein rifiutò l’eredità paterna e intraprese una serie di mestieri umili, finché fu assunto come maestro di scuola elementare. Tuttavia, le sue metodologie non proprio montessoriane e il suo carattere difficile lo portarono a entrare in conflitto con i colleghi e i genitori degli studenti.

Nel 1929, riprese gli studi. Nel 1930, ottenne il dottorato in filosofia e iniziò a insegnare presso l’Università di Cambridge, dove rimase fino al 1947. Tuttavia, il suo carattere difficile non mutò, aggravato da tendenze depressive. La sua personalità rigorosa ed esigente continuava a metterlo in conflitto con colleghi e amici a causa del suo modo di affrontare le discussioni. Eppure, nonostante non fosse difficile litigare con lui, tutti lo ammiravano e rispettavano per la sua integrità intellettuale e la sua dedizione. Del resto, la sua vita fu tormentata e segnata da tragedie familiari spaventose: ben tre dei suoi fratelli, anche loro geni tormentati, si tolsero la vita.

Nel 1947, Wittgenstein si dimise dall’Università e trascorse lunghi periodi in isolamento in Irlanda, Norvegia e Austria. Fu durante questo periodo che scrisse gran parte delle sue “Ricerche Filosofiche”, un’opera postuma che segnò un cambiamento radicale nel suo pensiero rispetto al “Tractatus”. Ed è in questo periodo che mostrò un rinnovato interesse per la religione e la trascendenza, anche se non riuscì a ritrovare la “fede”, almeno nel significato corrente di appartenenza a una Chiesa.

Il coniglio-papera o “anatra-coniglio” rimane un esempio vivace di come Wittgenstein impostasse la sua riflessione del linguaggio: a suo modo di vedere, i segni e le parole, proprio come questo disegno, non trovano significato in loro stessi, ma nel contesto e nelle aspettative di chi li accoglie o li usa.

Si tratta di una riflessione importante per chi pensa che le parole siano sempre inequivocabili e soprattutto, applicando la sua riflessione all’esegesi, per chi afferma cose del tipo “la Bibbia si spiega da sola”.

Le idee di Ludwig Wittgenstein rivoluzionarono le nostre idee sul linguaggio e continuano a influenzare e stimolare il pensiero filosofico e le scienze umane ancora oggi.

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La vita è un gioco? La scommessa di Pascal (spiegata bene)

Per comprendere Pascal, dobbiamo ricordarci che abbiamo a che fare non solo con un filosofo credente e un teologo, ma soprattutto con un matematico, uno scienziato e, teniamolo ben presente, un esperto giocatore.

Il calcolo delle probabilità, i cui fondamenti si studiano oggi a scuola, nacque proprio per risolvere alcuni problemi sul gioco dei dadi posti da un certo cavalier de Méré a Blaise Pascal, dal quale nacque un fitto carteggio, datato 1654, tra Pascal e il grande matematico Pierre de Fermat.

Pascal, ispirato dalle tante ore passate al tavolo verde e dalla passione per la matematica, è il primo ad applicare il calcolo delle probabilità anche alle grandi questioni della filosofia e, soprattutto, al problema di Dio. Questo modo originale di affrontare il problema ha aperto la strada a diverse ricerche in molti altri campi, tra i quali la cosiddetta “teoria della decisione”, fondamentale per quella che poi diventerà la “teoria dei giochi”.

Lo schema del suo ragionamento, più che la sua conclusione, ha influenzato profondamente non solo la filosofia ma persino l’informatica.

Anche se può sembrare incredibile, molti di quei programmi, chiamati “algoritmi”, che oggi regolano la nostra vita dentro e fuori da Internet – compresi quelli che vi hanno fatto scoprire questo video – trovano la loro origine proprio nella logica della decisione che soggiace alla famosa “scommessa”.

Pascal parte da una premessa, che non possiamo non condividere: tutti, per vivere, dobbiamo fare delle scelte. Le decisioni sono importanti, perché il nostro futuro è condizionato da quello che faremo o da quello che non faremo.

In più, nella vita reale, l’incertezza, che precede una decisione, è la regola non l’eccezione. Nelle situazioni concrete, non abbiamo a disposizione informazioni sufficienti per permetterci il lusso di non avere dubbi. Le variabili più importanti sono incontrollabili e gli esiti spesso incerti. Le decisioni, dunque, sono rischiose.

In pratica, la logica che domina la vita degli esseri umani non è tanto quella di Aristotele, adatta a manipolare concetti, quanto quella dello scommettitore, che deve confrontare il rischio con la posta in gioco.

La vita stessa può essere assimilata, in questa chiave, a un gioco. Siccome, però, non si può sapere tutto né calcolare tutto, la vita somiglia più ai dadi, alla roulette o al poker che al gioco degli scacchi. La vita è una partita nella quale è inevitabile confrontarsi con il calcolo delle probabilità.

Chi deve prendere una decisione dagli esiti incerti somiglia a un bravo giocatore d’azzardo che deve saper fare bene i suoi calcoli e domandarsi se abbia a disposizione un procedimento per affrontare l’inaspettato senza rimetterci. O, almeno, senza rimetterci troppo.

Pascal allora si domanda: esiste una strategia per misurare e controllare la nostra mancanza di conoscenza? un sistema pratico che possa aiutarci, in un gioco spesso imprevedibile come quello della vita, a fare sempre la scelta ottimale? Qual è, insomma, tra le tante, la scommessa migliore?

Cominciamo da un esempio davvero semplice. Il vostro professore ha assegnato diverse pagine da studiare, magari un po’… troppe, e ha annunciato che domani, forse, interrogherà. O forse… no. Non sarà proprio il massimo della pedagogia applicata, ma capita. Tornati a casa, siete davanti a un bivio: passare un pomeriggio sui libri oppure farvi una passeggiata con gli amici o… qualunque altra cosa vi piaccia fare.

Qui, anziché scomodare principi sacri e immutabili e farci dei pipponi sull’eterna lotta tra il bene e il male, tra il senso di responsabilità e la voglia di cazzeggio, o ripeterci, come farebbe Kant, che l’imperativo categorico dice che devi studiare e basta – o citare Buddha che rammenta che la vita è sfiga e sofferenza – Pascal suggerisce che potremmo affrontare la cosa da semplici giocatori e domandarci: sono in grado di determinare obiettivamente che mossa conviene fare, senza scomodare vangeli e corani o rincorrere leggi eterne e universali?

Studiare o non studiare? Questo è il problema. Attenzione: tenete ben presente che non avete informazioni sicure che possono aiutarvi a determinare, in un senso o nell’altro, che cosa farà il professore.

Le probabilità dunque, in questo caso, si equivalgono, come quando si lancia una moneta.

Una tabella ci può aiutare.

InterrogaNon interroga
StudioSufficienzaNessun voto
Non studioInsufficienzaNessun voto

In orizzontale, sulle colonne, elenchiamo le possibili situazioni che si possono verificare. In verticale, sulle righe, elenchiamo le scelte o “mosse” a nostra disposizione.

Se studio e il prof interroga, prenderò almeno la sufficienza. Se studio e non interroga, non riceverò alcuna valutazione. Se invece decido di non studiare e il prof mi chiama, sono guai: prenderò un’insufficienza. In alternativa, se sono fortunato e me la scampo, non ci sarà nessuna conseguenza perché il prof, non interrogando, non potrà dare alcun voto.

La tabella non elenca solo tutte le possibilità ma descrive una situazione di rischio, perché l’esito diverso delle uniche due mosse a disposizione – studiare o non studiare – ha delle conseguenze, che possiamo valutare con un punteggio.

Il valore dei punti assegnati dipende dall’obiettivo di chi sceglie, perché il fine, anche se non giustifica, permette di valutare i mezzi. Se lo scopo fosse farsi bocciare, sarebbe bene prendere un’insufficienza. Se invece si preferisce la promozione, è decisamente meglio evitare di farsi trovare impreparati.

Chi si trova di fronte a una scelta si confronta con delle aspettative. Questo è il motivo per il quale il “giocatore” assegna un “peso” soggettivo diverso agli esiti prevedibili.

Diventa ovvio che in alcuni casi c’è un guadagno; in altri o non si guadagna o si perde.

Dunque, alla luce di tutto questo, qual è l’azione più ragionevole da fare se il prof vi dice “forse domani interrogo”?

A questo punto, praticamente, non è più necessario spiegarlo.

Ora, torniamo di nuovo alla famosa “scommessa”. Pascal stesso le diede un titolo: “infinito nulla”. Materialmente, si tratta di un foglietto stilato sui due lati, scritto di getto sotto l’impeto di una mente in eruzione. Pascal, però, non ebbe tempo di chiarire quello che aveva solo annotato di getto. I suoi amici, invece, dopo la sua morte, trascrissero il tutto e lo inserirono in un libro: i famosi “pensieri”. Il resto è storia.

“La scommessa di Pascal” è ritenuta, fin da allora, una delle argomentazioni più interessanti e innovative dell’apologetica cristiana, seconda solo alla celebre “prova ontologica” di Sant’Anselmo.

È bene dirlo subito, però, per stare tutti più rilassati: la “scommessa” NON è una prova dell’esistenza di Dio. Per principio, Pascal non crede affatto sia possibile provare l’esistenza di Dio.

Il suo punto di partenza teorico è l’agnosticismo. Secondo lui non esistono prove convincenti dell’esistenza di Dio e, se ci fossero, sarebbero completamente inutili. Il Dio che si finirebbe per provare sarebbe una costruzione astratta, che si dimenticherebbe subito dopo averla studiata. Come anche l’illuminista Kant dopo di lui, Pascal è scettico riguardo le capacità della sola ragione di dimostrare la necessità di un essere divino trascendente.  

Allora, di che stiamo parlando? che cosa vuole davvero provare Pascal? Vuole tentare un’impresa più raffinata e, secondo lui, molto più importante. Vuole provare che agire supponendo l’esistenza di Dio è un comportamento ragionevole, anzi, il più ragionevole in assoluto.

Il suo argomento, dunque, non è teorico, ma pratico: secondo lui, vivere COME SE Dio esistesse, è la strategia vincente nella vita. Più o meno nel senso in cui, come abbiamo visto, il modo migliore per non avere insufficienze ed essere promossi, è quello di agire COME SE il prof interrogasse, in ogni caso.  

Pascal, tuttavia, sempre applicando la logica del giocatore, propone una partita su più livelli: da quello base per il principiante a quello riservato ai giocatori superesperti.

Primo Livello: la strategia dominante

Leggiamo le parole di Pascal:

Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: Dio è o non è: ma da quale parte propenderemo? La ragione non può dir nulla. Un abisso infinito ci separa [dalla verità].

Si gioca un gioco all’estremità di questa distanza infinita: testa o croce. Su che punterete? Seguendo la ragione non potete puntare né sull’una né sull’altra; seguendo la ragione non potete escludere nessuna delle due […]

è necessario scommettere. Non siete liberi di farlo o non farlo, ci siete costretti. Testa o croce, cosa prenderete?

Non si può evitare di giocare, perché siamo già dentro il gioco. Come abbiamo già visto, secondo Pascal la nostra condizione naturale non ci permette di sapere se Dio esiste o meno, perciò l’essere umano ha a disposizione, per raggiungerlo, solo la sua capacità di scelta. La volontà e il cuore arrivano dove non arrivano la ragione e la conoscenza. Dobbiamo dunque decidere se per noi Dio c’è o no. E non esiste scelta più importante. Credere, secondo Pascal, equivale ad agire. Ogni nostra azione dipenderà da questa decisione fondamentale. Fede e volontà sono inscindibili.

Pascal invita quindi il suo ideale interlocutore a valutare le possibili conseguenze della sua scelta:

Vediamo. Visto che bisogna scegliere, vediamo cosa vi conviene di meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da mettere in gioco, la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da cui fuggire, l’errore e la miseria. Visto che bisogna necessariamente scegliere, la vostra ragione non è offesa più da una scelta che dall’altra. Questo è un punto fermo. Ma la vostra beatitudine? Soppesiamo il guadagno e la perdita scegliendo croce: Dio esiste. Valutiamo questi due casi: se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla; scommettete quindi che esiste, senza esitare.

Il ragionamento di Pascal, in sintesi, è questo: la ragione può ammettere o non ammettere l’esistenza di Dio. Perciò, per la pura componente razionale dell’uomo, la scommessa è indifferente. La ragione, di fatto, non ha certezze ma soppesa la probabilità: in questo caso 50 e 50. Tuttavia, anche se in teoria si può essere indifferenti a Dio, dice Pascal, in pratica, no. Esiste infatti un’altra facoltà umana fondamentale che “si mette in gioco”: la volontà. La ragione soppesa, la volontà desidera. Il ragionamento misura le probabilità, il desiderio valuta la convenienza.

Che cosa desidera la volontà? La felicità, senza dubbio. C’è felicità, se Dio non esiste? No, nessuna felicità vera, perché l’uomo sarebbe comunque destinato al nulla, perciò tutto sarebbe indifferente e senza senso. Ma anche se un senso, relativo, si trovasse comunque, che cosa davvero, in fondo, preferiresti? Essere felice per sempre o cessare di esistere? Il tutto o il niente? L’infinito o il nulla? La volontà umana, perciò, assegna spontaneamente un valore positivo all’esistenza di Dio, perché la sua esistenza coincide con una speranza di felicità.

Che senso avrebbe puntare sul nulla, su zero, su un’eventualità che non promette alcun guadagno? Dato che l’azione umana più sensata, se ci sono uguali possibilità, è quella che permette di ottenere il massimo beneficio, Pascal non ha dubbi: il gioco della vita si risolve solo scommettendo su Dio.

Dio c’èDio non c’è
Scommetto su DioFelicitàNulla
Scommetto contro DioNessuna felicitàNulla

Notare come Pascal descriva, per il momento, un gioco in cui non si offrono strategie alternative.

Nella teoria dei giochi, quando si presenta una e una sola strategia vincente, si parla di “strategia dominante” o “superdominante”.

È questo, di fatto, il primo livello della scommessa di Pascal: scommettere su Dio promette un risultato sempre migliore di ogni altra possibile alternativa. Questa strategia domina tutte le altre, com’era quella dello studente dubbioso: non sa se il prof lo interrogherà, ma sa di poter vincere solo preparandosi all’interrogazione.

Tuttavia, il gioco prosegue. Pascal non si ferma qui e afferra subito il toro per le corna, affrontando la prima, ovvia, obiezione che viene in mente a tutti: e se fosse una fregatura? Pascal ne è ben consapevole. Infatti, porta immediatamente la sua scommessa a un “secondo livello”.

Secondo Livello: il rischio calcolato

Ha senso mettere in gioco qualcosa che ho, nello specifico questa vita, per qualcosa che non ho, cioè una vita migliore della quale non ho alcuna certezza? Perché non tenersi quel poco di felicità che posso avere oggi, anziché rischiarla tutta per quella che potrei avere domani?

Rimandare una gratificazione immediata per un’altra possibile, più grande e duratura, è un altro modo, meno pesante, di chiamare il sacrificio. E i sacrifici non ci piacciono, se non sono necessari.

Pascal riparte proprio dal discorso diretto del suo eventuale interlocutore, cioè noi:

– Questo è strano. Sì, bisogna scommettere, ma io rischio forse troppo.

Quando si gioca, è vero, si rischia. Ma il gioco è sempre equo? Cioè, quando è giusto tirarsi indietro? Si dice infatti: “gioca consapevolmente”. Ma che cosa significa, in realtà, “giocare consapevolmente”?

Pascal fa un’analisi chiara:

…  Qualsiasi giocatore rischia con certezza per guadagnare senza certezza, e così non pecca contro la ragione se rischia con certezza il finito per guadagnare il finito senza certezza.

In ogni scommessa si mette in gioco un valore finito sperando di ottenerne uno maggiore, sempre finito. Fin qui, tutto chiaro. Ma quanto bisogna essere pronti a giocare per non esagerare? Quando, davvero, ci stiamo giocando “troppo”?

Pascal non risponde da filosofo, ma da matematico:

… l’incertezza di guadagnare è proporzionata alla certezza di ciò che si rischia secondo la proporzione delle possibilità di guadagno e di perdita.

Due righe fenomenali. Pascal è così preciso ci mette in grado di scrivere una formula!

Facciamolo. In un gioco in cui, nel caso si verifichi X, la cifra pagata è W, ma nulla in caso contrario, noi stiamo cercando una cifra massima f, in sé indifferente tra lo scommettere e il non scommettere, oltre la quale, giocare non è raccomandabile.

Dato che la probabilità è un numero sempre compreso tra zero e uno, la probabilità P(X) è la probabilità di vincere, mentre 1-P(X), evidentemente, rappresenta la probabilità di perdere.

Se f è ciò che paghiamo per giocare, f è una certezza presente, mentre il guadagno della possibile vincita, cioè W-f, rappresenta l’incertezza futura.

A questo punto, per scoprire quanto valga la pena scommettere, rispetto a un’ipotetica vincita W dobbiamo fare una semplice proporzione tra il rapporto scommessa/vincita e quello certezza/incertezza.

Scriviamola:

Se il termine incognito che vogliamo calcolare è f, cioè quanto di “certo” possiamo ragionevolmente rischiare, allora, dopo qualche passaggio di algebra, avremo:

Cioè: il giusto prezzo di una scommessa è il prodotto della probabilità per la vincita per ogni caso X. Esattamente quello che vuole dire Pascal.

Facciamo un esempio. Supponiamo che ci sia proposto questo gioco: puoi pagare un euro per indovinare in quale delle due mani ne tengo tre. Se indovini, i tre euro sono tuoi.

Qui la probabilità che un caso o l’altro si verifichi equivale sempre a un mezzo. Dato che una mano contiene ZERO e l’altra TRE, il calcolo è presto fatto: tre diviso due, equivale a 1,5. Questo è il limite massimo oltre il quale, in questo gioco, giocare non conviene più.

L’aspettativa di guadagno, scommettendo un euro, in caso di vincita equivale dunque a:

1,5 – 1 = 0,50

Come si vede è un valore maggiore di zero, il che significa, in definitiva, semaforo verde: puoi giocare, perché si presenta un’opportunità ben proporzionata al rischio. Cioè, in pratica: giocare conviene.

Come accennato, la cifra massima oltre la quale “il gioco non vale la candela” è 1,5. In tal caso, l’utilità attesa è uguale a zero. Se ti va e sei propenso al rischio, gioca pure, ma sei al limite. Di sicuro, però, in questo scenario non è mai bene rischiare più della metà della cifra che si può vincere.

Riassumendo: Pascal, all’obiezione “rischio forse troppo” risponde:

Vediamo. Il rischio di guadagno e di perdita è uguale; ora, se aveste da guadagnare due vite contro una, potreste ancora scommettere, ma se ne aveste tre da guadagnare, bisognerebbe giocare (visto che giocare è una necessità) e sareste imprudenti, costretti a giocare, se non giocaste la vostra vita per guadagnarne tre in un gioco in cui il rischio di perdita e di guadagno è pari.

Insomma, giocarsi una vita in cambio di due è accettabile. Da tre in su, conviene decisamente.

È quasi scandaloso come Pascal applichi la matematica alla filosofia. Teniamo presente ora che la sua risposta alla prima obiezione è così precisa e potente che non teme di complicare il gioco. Con la formula del calcolo dell’utilità attesa, infatti, in teoria, è possibile gestire qualsiasi tipo di scommessa, consapevoli di volta in volta quanto sia “giusto” mettere sul piatto.

Non solo un semplice testa o croce, o mano piena e mano vuota, ma possiamo gestire scenari anche più complessi e più rischiosi, come la Roulette, dove, oltre a giocare sul bianco o sul nero, possiamo puntare cifre diverse su numeri diversi con premi più alti.

Spero che fin qui non vi siate persi o non siate scappati tutti. Anche perché sta per venire il bello. Pascal, infatti, alza la posta. Avete il coraggio di restare al tavolo con lui?

Che cosa accade, se la posta sale ancora? Da quanto abbiamo visto, è chiaro che l’opportunità di guadagno cresce sempre in proporzione alla posta in gioco.

Ora, insiste Pascal, se invece di tre euro, ci fosse in palio una cifra grande a piacere? Cinque, dieci, diecimila euro… un fantastiliardo!?

In tal caso, con il 50 per cento di probabilità, bisognerebbe essere stupidi a non scommettere. Il premio è altissimo, il costo della puntata irrisorio, se confrontato all’aspettativa di guadagno, e la probabilità di vincere ottimale. In pratica, sarebbe come una lotteria miliardaria in cui si vendono e si estraggono solo due biglietti: tutti la vorrebbero giocare!

Riprendiamo questa analogia e applichiamo alla questione di Dio.

Se scommettendo una vita ne vincessi due, in teoria, in base a quanto visto, sarebbe ancora accettabile giocare. Se le vite fossero tre, sarebbe persino conveniente. Ora, qui non ci sono in gioco una vita, due o tre…

Ma si tratta di un’eternità di vita e di felicità.

Pascal ci invitata di nuovo a giocare al tavolo verde dell’Universo.

Che cosa sarebbe ragionevole fare se la vincita consistesse in tante di quelle vite da non riuscire nemmeno a contarle? Non ci sono dubbi: giocarsi tutto sarebbe persino l’unica cosa ragionevole da fare.

Suona strano, forse per qualcuno anche un po’ sgradevole, sentire Pascal paragonare una “vita” a una “fiche” sul tavolo da gioco. Eppure, è esattamente l’immagine che sta suggerendo: mettere Dio come premio significa che la posta in palio è un assegno in bianco. Se vuoi almeno sperare di vincere, devi lanciare sul piatto la tua fiche, cioè la tua vita.

Dato che Dio è per noi impensabile, Pascal ricorre all’immagine di un valore che non si può numerare. Che cosa significa “vincere” Dio? Pascal suggerisce di pensare alla posta in gioco come a un mucchio talmente grande di fiche che nessuno può contarle e sapere che ciascuna di esse mi permette di riscuotere una vita intera alla cassa del Casinò dell’Universo, è un modo analogo di pensare alla vita eterna. Questo è il valore esistenziale di Dio e questa è la posta in gioco, quando si punta su Dio.

Ora, però, facciamo bene attenzione a quelle che finora sono state le due premesse fondamentali del ragionamento di Pascal:

  1. La possibilità dell’esistenza di Dio è ½, cioè il 50%.
  2. La vincita, se Dio c’è, ha un valore inestimabile.

L’argomento, come finora è stato presentato, è valido solo se queste due assunzioni sono vere. Non a caso, tutte le obiezioni alla scommessa di solito si concentrano qui, specialmente sul primo punto. C’è infatti chi non assegna a Dio nemmeno la possibilità dell’1 per cento…

Approfondiremo le principali obiezioni a Pascal con attenzione in un altro video, un po’ perché questo è già lungo, un po’ perché vorrei che vi iscriveste al canale, se non altro per continuare questa conversazione…

Ma il vero motivo che ci spinge a rimandare è che ora ci aspetta il terzo livello, il vero colpo da maestro di Pascal, che si potrebbe anche riassumere così: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Terzo Livello: l’aspettativa dell’infinito

Riflettiamo sulle due premesse della scommessa.

La prima ci dice che l’ateo non è nella condizione di accettarla. Il motivo è ovvio: non può ammettere che ci siano il 50 per cento di probabilità che Dio esista. L’ateo, per definizione, assegna infatti il valore 0 (zero) a questa probabilità.

Se si è già sicuri che Dio non esiste, è ovvio che non ha alcun senso scommettere. All’estremo opposto, se dai Dio per certo, senza alcun’ombra di dubbio, il valore della probabilità per te è 1 (uno), perciò non stai realmente giocando. Stai solo facendo cassa.

Lo scenario di Pascal però non è questo. Pascal non si rivolge all’ateo o al talebano. È molto importante ribadire questo punto. Pascal non vuole convincere chi di fatto è già convinto che Dio non esista, o viceversa. La sua scommessa si rivolge a chi è dubbioso, esitante, anche molto esitante, e che, onestamente privo di certezze assolute, cerca di giocarsela meglio che può.

Perciò, atei e teisti, non giocate con Pascal. Lasciate spazio agli animi inquieti, agli scettici veri, ai cercatori mai contenti.

Al terzo livello della scommessa, Pascal compie il suo capolavoro: non solo alza indefinitamente il valore della posta, ma nello stesso tempo, porta all’estremo l’azzardo. In fondo, segue fino in fondo la logica del gioco, collegata a quella dell’investimento: maggiore è il rischio, maggiore è il possibile guadagno. Pascal, perciò, riformula di nuovo la scommessa facendo cadere la prima assunzione.

E se le possibilità dell’esistenza di Dio fossero molto minori di una su due? Persino scarse, se non scarsissime? Se la bilancia, insomma, pendesse molto verso la non esistenza di Dio? Al punto da ridurne le possibilità a meno dal cinquanta per cento, fino – diciamo – all’uno per mille? O addirittura a una su un milione?

Ecco la mossa decisiva. Qui Pascal aspettava l’agnostico, scettico sì, ma aperto alla possibilità, per quanto piccola, dell’esistenza di Dio. Questo terzo livello, più dei precedenti, esprime lo spirito profondo della “scommessa”.

Si riparte dunque dalla domanda: se le probabilità di vincere sono davvero così poche, vale la pena mettere in gioco la vita?

Vediamo come si esprime Pascal:

…c’è qui una infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una possibilità di vincita contro un numero finito di possibilità di perdita, e ciò che voi giocate è finito. Non c’è posta che valga là dove c’è l’infinito e dove non si hanno infinite possibilità di perdita contro altrettante di guadagno. Non c’è partita, bisogna dar tutto.

Se si legge con attenzione, si comprende che Pascal sta mettendo in evidenza due cose per lui fondamentali:

  1. la posta in gioco tende a un valore infinito, cioè vincere Dio equivale a sbancare il casinò dell’Universo;
  2. la possibilità di vincita, per quanto minima, è sempre diversa da zero; il che significa che, anche se sei molto scettico, non te la senti di escludere del tutto l’esistenza di Dio.

Come cambia allora la scommessa, se le possibilità dell’esistenza di Dio sono basse e il premio è un valore grande a piacere? Non si sta più giocando a testa o croce, come nel primo livello, né alla roulette, come nel secondo. Ora, in questo “terzo livello”, la scommessa si rivela come una lotteria nella quale c’è un premio da capogiro e milioni, o persino miliardi, di biglietti tra i quali scegliere.

Un altro paragone adeguato potrebbe essere una combinazione del Superenalotto quasi impossibile da indovinare.Le probabilità diventano molto scarse, ma la possibilità di vincere rimane. Se compri il biglietto di una lotteria o giochi una cinquina, molto probabilmente non vincerai. Eppure, si può vincere. Anzi qualcuno vince sempre, altrimenti nessuno giocherebbe.

Ma perché si compra il biglietto di una lotteria o si gioca al Superenalotto? Perché la somma che si spera di vincere è molto alta e la somma che si investe, al confronto, molto bassa! Quanto più la somma è alta, rimanendo fissato o comunque finito il prezzo del biglietto, tanto più la decisione di comprare un biglietto o staccare una ricevuta di gioco diventa un comportamento razionale, anche senza considerare la propensione al rischio.

Di fatto, riflettiamoci: perché aumenta, a volte vertiginosamente, il jackpot di un Superenalotto? Perché, quanto più sale il montepremi, tanto più si aggiungono altri giocatori. La speranza di una vincita enorme a fronte di una spesa irrisoria travolge anche gli scommettitori meno abituali. Un comportamento in cui gioca una forte componente emotiva, certo, ma assolutamente non irrazionale, sottolinea Pascal.

Come per i due livelli precedenti, possiamo fare una verifica matematica. Quello che dobbiamo fare è prendere il concetto di infinito (per i matematici è un concetto, ricordiamolo, non un numero) e applicarne le regole alla formula che abbiamo già incontrato.

In particolare, teniamo presente che:

Per tutti i numeri reali r:

Per tutti i numeri reali r:

Prendendo ora in considerazione una probabilità p, positiva e non infinitesimale – che è sempre un valore compreso tra zero e uno – possiamo calcolare la scommessa migliore basata sull’aspettativa di un guadagno infinito.

Ridisegniamo la tabella che rappresenta quello che abbiamo chiamato “il gioco della vita”, applicando i valori corrispondenti agli esiti di ogni eventuale possibile mossa e valutando come “infinita” la posta in gioco nel caso in cui Dio esista. Tutti gli altri valori eventuali, finiti, li indichiamo con un una “f”.

Nel caso in cui si scommetta su Dio, applicando la formula già vista, avremo:

In alternativa, scommettendo contro, avremo un’utilità attesa calcolata allo stesso modo:

che è comunque un valore finito.

Il che dimostra dunque come, anche nel caso in cui le probabilità della sua esistenza siano ritenute scarse, il comportamento più razionale è scommettere la vita su Dio.

Giunti fini qui, ricapitoliamo il tutto. L’argomento definitivo è formato da tre premesse e due conclusioni.

Premesse:

  • Dio esiste oppure no. Perciò la scommessa è solo pro o contro di lui.

Ciascun esito possibile, ben definito, è associato con un guadagno corrispondente, f1, f2, f3, ‘infinito’, dove le f sono tutti valori, negativi o positivi, ma inevitabilmente finiti.

  • L’agnosticismo è la condizione di default della ragione umana, anche se si può essere, di fatto, più o meno inclini al teismo o all’ateismo. In pratica si deve assegnare alla probabilità dell’esistenza di Dio un valore positivo, maggiore di zero, non infinitesimale.
  • Agire con lo scopo di ottenere il massimo guadagno è un comportamento razionale

Dunque:

  • Conclusione 1: scommettere su Dio è un atto razionale
  • Conclusione 2: in quanto essere razionale, dovresti farlo anche tu

Ecco, in definitiva, in che cosa consiste la scommessa di Pascal.

Prima di concludere un’ultima considerazione su: “infinito nulla”. Il titolo scelto da Pascal ora acquista un significato più chiaro: di fronte all’infinito, tutto tende a diventare infinitesimale, cioè un nulla. Perciò, ciò che l’uomo può perdere è insignificante in confronto a ciò che può guadagnare, perché le possibilità che Dio esista non sono nulle o infinitesimali.

Il Dio nascosto non si può conoscere né spiegare, ma sul suo mistero ci è data la possibilità di scommettere, in quel gioco della vita al quale nessuno di noi si può sottrarre.

L’apostolo di Napoli

Come mai un nome di origine orientale come “Ciro” è ancora diffuso a Napoli? Molti sanno che si deve alla devozione a San Ciro di Alessandria, un medico egiziano degli inizi del IV secolo che curava gratuitamente i poveri. Ma quello che forse alcuni non sanno è che questa devozione si è radicata a Napoli, e propagata in tutto il Sud, in tempi relativamente recenti, grazie anche ai gesuiti e, in particolare, a un loro campione: Francesco de Geronimo.

Nato il 17 dicembre 1642 a Grottaglie, nei dintorni di Taranto, Francesco de Geronimo entrò a sedici anni nel collegio gestito dalla Compagnia di Gesù. Qui studiò umanità e filosofia e si distinse per tali doti che il suo vescovo lo mandò a Napoli per seguire lezioni di teologia e diritto canonico nel celebre collegio del Gesù Vecchio, uno dei più rinomati d’Europa. Fu ordinato prete il 18 marzo 1666. Dopo aver passato quattro anni da educatore al collegio dei nobili a Napoli, entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù il 1° luglio 1670.

Questo sacerdote pugliese trapiantato a Napoli, di alta statura, con un’ampia fronte, grandi occhi scuri, un naso aquilino e un viso pallido che testimoniava le sue pratiche ascetiche, aveva il dono di una parola convincente. Francesco desiderava andare a lavorare e, come diceva spesso, forse anche a sacrificare la sua vita, in Estremo Oriente. Scriveva frequentemente ai suoi superiori, implorandoli di concedergli quel grande favore. Alla fine, però, gli dissero di abbandonare del tutto l’idea e di concentrare il suo zelo e la sua energia sul Regno di Napoli. Così, per quarant’anni, dal 1676 fino alla sua morte, la città e i dintorni di Napoli divennero il centro del suo lavoro.

Era un predicatore infaticabile. Spesso si diceva che parlasse quaranta volte in un solo giorno. Sceglieva quelle strade che sapeva essere il centro di qualche crimine o scandalo. I suoi discorsi brevi, energici ed eloquenti toccavano le coscienze dei suoi ascoltatori, operando straordinarie conversioni.

Le sue missioni erano svolte quasi sempre all’aperto e nei quartieri più bassi. La gente si precipitava per incontrarlo. “E’ nu’ ciuccio quanno parl’, nu’ liun’ quanno pridic’!”, dicevano (mi perdonino i napoletani la ricostruzione ipotetica della loro lingua nel Seicento).

Aveva la reputazione di essere un operatore di miracoli, e i suoi biografi, così come coloro che testimoniarono durante il processo canonico, non esitarono ad attribuirgli una moltitudine di guarigioni di ogni genere. Ma Francesco de Geronimo attribuiva al medico martire Ciro di Alessandria tutti i prodigi che operava. Durante le sue prediche ne portava sempre con sé alcune reliquie in una teca e le usava per benedire i malati.

È grazie a lui se la celebrazione religiosa del 31 gennaio in memoria del martirio di San Ciro ebbe inizio nell’anno 1693, come risulta anche da documenti scritti di suo pugno.

I suoi funerali furono per i napoletani l’occasione di una processione trionfale. Sarebbe stato beatificato immediatamente, se non fosse stato per la tempesta che poco dopo assalì la Compagnia di Gesù e che terminò nella sua soppressione. Pio VII non poté procedere con la beatificazione fino al 2 maggio 1806; e Gregorio XVI lo canonizzò solennemente il 26 maggio 1839.

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Politico, credente, amico, martire

Aldo Moro, un nome che suona come una campana nella storia italiana del dopoguerra. Una figura che, come un gigante, ha camminato sulla scena politica lasciando impronte profonde e indelebili. Ma Aldo Moro non era solo uno statista; era un uomo spirituale, un amico devoto e un pensatore profondo, qualità che hanno sempre segnato la sua vita e il suo lavoro.

Moro era guidato dalla fede, un credente nel vero senso della parola. Il suo umanesimo cristiano era tanto parte di lui quanto il suo sangue e le sue ossa. Credeva fermamente nell’amore per l’umanità, nell’etica, nella forza nel dialogo, nella moderazione. Aveva fatto propri valori oggi un po’ fuori moda, ma che si riflettevano con vigore nelle sue politiche e nel suo approccio alla vita. Il suo tentativo di trovare un equilibrio tra le proprie convinzioni e la necessità di dialogare con le forze politiche di diverso orientamento è una testimonianza, che le circostanze lo costrinsero a portare all’estremo, della sua dedizione a un’Italia inclusiva e democratica.

Durante il tragico periodo del suo sequestro, Moro scrisse una serie di lettere che rivelano, tra le altre cose, un’intensa spiritualità. Nonostante siano stati al centro di dibattiti e teorie del complotto, questi scritti rivelano al di là di ogni incertezza, una personalità interiore che, nonostante il terribile tormento che stava subendo, non aveva mai smesso di confidare nella giustizia divina e nella possibilità di un futuro migliore.

Ma Aldo Moro non era solo un uomo di fede; era anche un amico devoto. La sua familiarità con Papa Paolo VI ne è un perfetto esempio. I due condividevano una visione comune di umanesimo cristiano, seminato e coltivato a lungo nelle file dell’Azione Cattolica, e la loro amicizia influenzò profondamente la politica italiana e la storia recente della Chiesa. Paolo VI, addolorato dal rapimento di Moro, fece un gesto straordinario offrendosi di scambiare sé stesso al suo posto. Un’offerta respinta, ma che testimonia la profondità del legame tra i due.

Il corpo di Aldo Moro fu trovato il 9 maggio 1978 all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in Via Caetani, nel centro di Roma. Il luogo era simbolicamente molto significativo: si trova a metà strada tra la sede del Partito Comunista Italiano in Via delle Botteghe Oscure e la sede della Democrazia Cristiana in Largo del Nazareno, proprio a rappresentare l’eliminazione violenta di una possibilità politica che Moro avrebbe potuto realizzare.

Mentre osava andare oltre, nel tentativo di riconciliare ciò che ad altri sembrava inconciliabile o, potremmo dire, parafrasando un funambolismo verbale a lui caro, di trattare in modo “parallelo” persino le “divergenze”, Aldo Moro, il politico, il credente, l’amico, divenne così anche un martire. Un uomo speciale che, insieme ai cinque agenti della sua scorta, non possiamo permetterci di dimenticare.

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Il rapimento di Babbo Natale (che esiste e vive a Bari)

Il furto delle reliquie di un santo sarebbe, a prima vista, un evento degno di una commedia nera. Eppure, nel caso di San Nicola di Bari, il trafugamento delle sue ossa si rivela essere un episodio cruciale nella storia del suo culto, che ha attraversato i secoli e si è diffuso in tutto il mondo cristiano con degli effetti davvero imprevisti.

Correva l’anno 1087, e il Mediterraneo era il teatro di scontri e conflitti tra cristiani e musulmani, con l’avanzata dell’Islam che minacciava i luoghi di culto della cristianità. Fu così che un gruppo di mercanti e marinai italiani, in gran parte provenienti dalla città di Bari, si imbarcò in una missione audace: recuperare le reliquie di San Nicola da Myra, dove il santo era sepolto, per proteggerle dalla distruzione o dalla profanazione. La leggenda narra che San Nicola stesso apparve in sogno a un sacerdote di Bari, chiedendogli di salvare le sue reliquie. Armato di questa visione divina, un “commando” di baresi giunse a Myra, nell’attuale Turchia meridionale. La città faceva ancora parte dell’Impero Bizantino, ma era stata già una volta conquistata e poi persa dai Selgiuchidi, che continuavano a minacciarla. Qui, con l’aiuto di alcuni monaci locali, i baresi riuscirono a individuare e aprire la tomba di San Nicola. A seconda delle versioni, la tomba fu trovata già aperta, o furono loro stessi a forzarla. Fatto sta, le sacre ossa furono caricate su una nave e portate a Bari, dove arrivarono il 9 maggio 1087.

La vicenda contribuì a consolidare la figura di San Nicola come santo patrono dei marinai, poiché si riteneva che avesse protetto la nave durante l’ancora più rischioso viaggio di ritorno. Al di là di ogni aspettativa, la traslazione delle reliquie favorì un’incredibile e rapida diffusione del culto di San Nicola in Europa occidentale. Come mai?

Il motivo probabilmente si può ritrovare nell’identità personale del santo e in ciò che aveva finito per rappresentare in un mondo, in fondo non molto diverso dal nostro, che si sentiva minacciato dall’avidità e dalla violenza. Nato nel 270 d.C. a Patara, nella regione di Licia, nell’attuale Turchia, San Nicola divenne vescovo di Myra e morì il 6 dicembre 343 d.C. Grande difensore della fede, fu subito venerato per i numerosi miracoli a lui attribuiti, ma ancora di più per la fama della sua generosità, capace non solo di condividere dei beni con gli sfortunati, ma soprattutto di restituire loro dignità.

Tra le sue gesta più celebri, c’è quella di aver salvato tre ragazze povere dalla prostituzione, fornendo loro una dote. Questo semplice gesto ha dato origine, insieme alla tradizione delle calze natalizie, all’associazione della persona di San Nicola con la fiducia nella possibilità, fatto non da poco, che ogni essere umano, con un atto generoso e non richiesto, sia in grado di restituire il valore inestimabile della speranza e del futuro al proprio prossimo incapace di rialzarsi da solo. È la dimostrazione che non solo fare il male, ma anche e soprattutto fare il bene ha delle conseguenze, di una potenza ben maggiore e molto più indelebili.

Oggi, il culto di San Nicola è diffuso in tutto il mondo cristiano, sia nella Chiesa cattolica che nelle Chiese ortodosse. Oltre all’Italia, San Nicola è particolarmente venerato in Russia, Grecia e nei paesi slavi, dove è conosciuto come “Sveti Nikola”. La sua figura ha anche influenzato la creazione del personaggio di Babbo Natale, o Santa Claus, simbolo della generosità che dona ai bambini durante le festività, superando anche la barriera delle convinzioni religiose.

La Basilica di San Nicola a Bari fu costruita per ospitare i suoi resti, diventando un importante centro di pellegrinaggio per i fedeli provenienti da tutto il mondo. La memoria del furto delle reliquie o, se volete, del loro “salvataggio” nella città pugliese viene celebrata ogni anno con una festa e una processione tradizionale che si tiene puntualmente il 7-9 maggio.

A volte storia, leggenda e fede si intrecciano. In questo caso hanno dato vita a un culto che sfida il tempo e le distanze geografiche. Il santo che guarisce il corpo e lo spirito con la generosità di un dono, continua ad essere un simbolo di protezione e guida per i marinai, i viaggiatori e i bambini, in un mondo che ha più che mai bisogno di fiducia e di gesti di umanità.

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Il vescovo del piccolo schermo

C’era una volta, un vescovo americano che seppe domare il piccolo schermo, quel diavolo in bianco e nero che allora, negli anni ’50, stava cominciando a insinuarsi nelle case di milioni di famiglie. Fulton John Sheen (1895-1979) era il suo nome, e la sua storia è quella di un uomo che aveva intuito la potenza dei media come strumento di evangelizzazione, quando ancora il clero li guardava con diffidenza.

Cosa aveva di speciale questo prelato dall’aria bonaria e lo sguardo penetrante? Nato con un piede nello stesso secolo di Napoleone e Dickens, l’8 maggio del 1895, in un paesino dell’Illinois da una famiglia di origine irlandese, Sheen aveva studiato in seminario e, una volta ordinato sacerdote nel 1919, era volato in Europa per completare la sua formazione. Aveva conquistato un dottorato in filosofia nella prestigiosa Catholic University of Louvain, in Belgio, e poi aveva messo radici a Washington, D.C., come professore presso la Catholic University of America.

Ma la vita di Fulton Sheen non si esauriva nelle aule universitarie. Nel 1930, infatti, iniziò a usare il microfono e le onde radio per diffondere il messaggio evangelico, conducendo il programma “The Catholic Hour”. Non era facile, in quegli anni, parlare di religione in un mezzo di comunicazione di massa, eppure Sheen riusciva a farlo in modo tale da catturare l’attenzione di un vasto pubblico, anche di non cattolici. L’apice della sua carriera mediatica arrivò con il programma televisivo “Life is Worth Living”, che lo vide protagonista negli anni ’50.

Non era certo il classico predicatore dalla foga incendiaria. Sheen, invece, seduceva gli spettatori con la sua parlantina calma e l’ironia sottile, spiegando con semplicità concetti complessi della fede cattolica e dimostrando che la televisione poteva essere un mezzo per avvicinare le persone a Dio. Fu premiato con due Emmy Awards, a dimostrazione che il successo era anche di critica.

Era un personaggio pieno di sorprese, questo Sheen. Aveva una memoria prodigiosa e riusciva a ricordare i nomi di tutti gli studenti che aveva incontrato nella sua carriera. Non solo: scrisse oltre 70 libri, e la sua influenza fu tale riavvicinare al cattolicesimo alcuni vip del suo tempo e contribuire alla conversione di personaggi allora celebri come la giornalista, autrice e poi ambasciatrice americana in Italia, Clare Boothe Luce.

Oggi, Fulton Sheen è considerato il precursore di quegli evangelizzatori che, grazie a radio, televisione e Internet, riescono a raggiungere milioni di persone in tutto il mondo. La sua storia ci insegna che la fede può essere trasmessa attraverso i media, purché si sappia usare l’intelligenza e il cuore per farlo. E chissà cosa avrebbe fatto, il buon vescovo Sheen, se avesse avuto a disposizione gli strumenti di comunicazione di oggi: i social network, gli smartphone, i podcast. Sarebbe stato un influencer divino, probabilmente, molto attento a non cadere nella trappola della futilità e dell’ossessione di seguire le tendenze, che spesso annacqua il mondo digitale.

La sua eredità, però, vive ancora oggi e continua ad ispirare generazioni di evangelizzatori mediatici. Sheen ci ha mostrato che la fede e la spiritualità possono trovare spazio nel caotico mondo dei media, purché guidate da passione, umiltà e saggezza.

Nel 2002, la Chiesa cattolica ha avviato il processo di beatificazione di Fulton Sheen, riconoscendone l’importanza e il valore del suo impegno nella diffusione del messaggio cristiano. Nel 2012, è stato dichiarato “Venerabile”, un passo importante verso il successivo gradino al riconoscimento della santità, la beatificazione, che dovrebbe essere imminente.

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Una donna per tutte le stagioni

L’immagine di una donna in abito scuro, così pesantemente velata, potrebbe farci pensare a tempi bui e al sostegno di una concezione della vita e del ruolo della donna degna di un regime talebano. Eppure, la nostra fantasia, in questo caso, viaggerebbe molto lontano dalla realtà.

Rosa Venerini è stata in verità una figura rivoluzionaria, una vera pioniera dell’istruzione femminile e del ruolo delle donne nella formazione scolastica. Ai suoi tempi, a cavallo tra il Seicento e il Settecento, era impensabile non solo l’istruzione, anche religiosa, delle ragazze più povere, ma persino il fatto che una donna potesse insegnare il catechismo al posto del parroco. La donna, specialmente se di ceto popolare, era destinata esclusivamente a occuparsi del marito e fare figli. Ogni altra alternativa era considerata una minaccia alla base della santità della famiglia e della società.

Discendente anche lei da casate di rango, ebbe la fortuna di avere una madre ben intenzionata a farla studiare e una zia materna, superiora del convento di Santa Caterina a Viterbo, che provvide alla sua formazione. Diventata figlia spirituale dei Gesuiti, fu ispirata dalla religiosità profonda, ma anche moderna, combattiva e pragmatica di Sant’Ignazio e si sentì subito chiamata a grandi imprese. Fondò, con l’appoggio del cardinale Barbarigo, diverse scuole femminili, creando, fatto per noi oggi impensabile, grande scompiglio nella società del tempo. Lei stessa rinunciò alla tranquilla vita monacale contemplativa, per la quale era portata, per dedicarsi alla vita attiva, andando contro il suo stesso carattere.

Nata pacifica e conciliatrice, seppe diventare guerriera. Credeva in qualcosa che allora suonava più impossibile che sconveniente. Fu boicottata in modo sistematico. Non mancarono persino episodi di vandalismo e di violenza. Alcune sue scuole furono attaccate e bruciate, ma non si scoraggiò, convinta che il futuro appartenesse non solo agli uomini, ma anche a quelle ragazze che aveva deciso di servire.

La svolta ci fu quando papa Clemente XI cominciò a sostenerla apertamente, aiutandola ad aprire scuole in tutto in Lazio, fino ad arrivare a Roma, dove morì nel 1728 per un tumore al seno.

La sua carriera di santa non fu rapidissima. Fu beatificata da Pio XII più di duecento anni dopo la sua morte e canonizzata al più alto livello da papa Benedetto XVI, il 15 ottobre del 2006. La sua memoria liturgica ricorre ogni anno il 7 maggio, per aiutarci a non dimenticare che certe conquiste non si devono dare per scontate.

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Il santo dell’era industriale

La devozione a San Giuseppe ha ovviamente radici antichissime, dato che si tratta di uno dei personaggi chiave dei vangeli, ma in pochi sono consapevoli di quanto sia cresciuta dall’inizio della rivoluzione industriale fino a raggiungere il suo apice in tempi a noi vicinissimi.

Nel Medioevo, San Tommaso d’Aquino e San Bernardo di Chiaravalle scrissero della sua importanza, contribuendo ancora di più a diffonderne il culto. Nel 1479, papa Sisto IV inserì la festa di San Giuseppe nel calendario liturgico romano e, nel 1621, papa Gregorio XV ne estese l’osservanza a tutta la Chiesa cattolica, che nel frattempo aveva conquistato anche il Nuovo Mondo.

Ma fu a partire dalla rivoluzione industriale che la devozione a San Giuseppe conobbe un’accelerazione sorprendente. In questo periodo, nacque una nuova sensibilità sociale e una maggiore attenzione alle condizioni di vita degli operai e delle loro famiglie. San Giuseppe, essendo un artigiano e padre di famiglia, divenne un modello di riferimento per i lavoratori e un simbolo della dignità del loro ruolo insostituibile.

Pio IX, nel 1870, proclamò solennemente san Giuseppe “patrono della Chiesa universale”, ma furono Pio XII e poi Giovanni Paolo II a dargli una ancora più forte valenza “sociale”, anche in chiave – sarebbe ingenuo nasconderlo – fortemente anticomunista.

Pio XII, sulla scia di una lunga tradizione capace di cambiare il significato delle feste pagane senza abolirle, proclamò la festa di San Giuseppe lavoratore il Primo Maggio esplicitamente con l’intento di sovrapporre al suo significato politico, cavalcato allora in chiave atea e anticristiana, un significato profondamente religioso, che non negasse le istanze di giustizia e di dignità che ribollivano tra i lavoratori nei gradini più bassi della scala sociale.

Giovanni XXIII, nella lettera apostolica “Le voci”, lo elesse a patrono del Concilio Vaticano II. Nella stessa lettera elenca in dettaglio tutto ciò che era stato affermato su San Giuseppe da tutti i suoi predecessori negli ultimi cento anni, a partire proprio da Pio IX.

Sulla medesima linea si poneva Giovanni Paolo II, che rinforzava il patrocinio di San Giuseppe nel 1981 con la sua enciclica “Laborem Exercens”, senza celare l’intento di benedire e sostenere il sindacato Solidarnosc e i seguenti moti polacchi che portarono alla caduta dell’URSS.

Ma la devozione di Giovanni Paolo II a San Giuseppe andava oltre i suoi effetti sulla storia. Nel 1989, pubblicò l’enciclica “Redemptoris Custos” (Custode del Redentore), in cui rifletteva sul ruolo di San Giuseppe nella vita di Gesù e nella storia della salvezza, sottolineando l’importanza del suo esempio di fedeltà e di servizio tanto umile quanto straordinariamente efficace.

Benedetto XVI, all’inizio del XXI secolo, aggiunge il suo nome al canone della Messa, subito dopo quello di Maria. Francesco, dal canto suo, lo cita spessissimo nei suoi discorsi.

I santi lavoratori, del resto, sono i più affidabili: sognano, ma si alzano la notte per permetterci di sopravvivere; ascoltano, studiano e pensano, ma si rimboccano le maniche per trasformare la teoria in pratica. Non si fermano a contemplare, ma costruiscono. Non si domandano “se”, ma “come”.

Suggerisco al papa attuale, o a quello che verrà, di eleggerlo ancora una volta a patrono dell’era post-industriale. C’è un immenso lavoro, materiale e spirituale, che attende il mondo e la Chiesa nel mondo: il lavoro nella quarta fase dell’era digitale, il lavoro immenso per ritrovare un equilibrio con l’ambiente, il lavoro necessario a risollevare ancora i popoli dalla povertà, il lavoro degli imprenditori insieme a quello degli operai, il lavoro che attende chi, forse, rimetterà in piedi questo pianeta, renderà migliore la convivenza degli uomini, ci darà nuove fonti di energia, ci assisterà nella malattia e persino realizzerà la conquista dello spazio. Senza dimenticare il lavoro immenso di chi è chiamato, qui e ora, a operare per la pace. O, forse, semplicemente, e sarebbe già una gran cosa, chi lavorerà instancabilmente per impedire che la pigrizia e il lasciar correre ci conduca a tutte le apocalissi immaginabili.

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Due santi diversi che hanno plasmato la Chiesa

Il 30 aprile il martirologio affianca due figure diverse, appartenenti a tempi e mondi lontani: Giuseppe Benedetto Cottolengo, uno dei più famosi santi sociali di Torino, e il domenicano Antonio Ghislieri, noto come fra Michele e infine passato alla storia come papa Pio V, il protagonista principale della Riforma Cattolica. Eppure qualcosa di profondo accomuna due personaggi così a prima vista distanti: il loro profondo e duraturo influsso sulla Chiesa come noi oggi la conosciamo.

Giuseppe Benedetto Cottolengo, primo di dodici figli, crebbe in una famiglia benestante di commercianti. Dopo aver iniziato gli studi di teologia nel 1802, fu ordinato sacerdote nel 1811. Dotato di mente brillante, prestò servizio in varie posizioni ecclesiastiche. Tuttavia, la lettura della biografia di San Vincenzo de’ Paoli lo condusse col tempo a una crisi di coscienza. Non gli bastava essere “un bravo prete”.

La svolta decisiva, che lo portò a rispondere a una vera e propria “seconda vocazione”, avvenne il 2 settembre 1827, quando fu chiamato al capezzale di una donna francese incinta e malata di tubercolosi, Giovanna Maria Gonnet, che non era stata ammessa in nessun ospedale torinese. Le autorità sanitarie erano terrorizzate dalla possibilità che la donna diffondesse il contagio, perché le morti a catena non erano affatto rare negli ospedali, specialmente tra le puerpere. Di fronte alla sofferenza della donna, che morì abbandonata in una stalla, Cottolengo decise di non restare a guardare e di creare lui stesso un rifugio per accogliere coloro che non trovavano assistenza altrove. Sensibili al problema molto più degli uomini, un gruppo di donne si offrirono come volontarie. Così, il 17 gennaio 1828, fondò il Deposito de’ poveri infermi del Corpus Domini, proprio nel cuore di Torino. L’iniziativa, come è facile immaginare, ebbe vita tormentata. Dopo tre anni, a causa del timore di epidemie, il governo ordinò la chiusura forzata del ricovero. Cottolengo non si perse d’animo e si trasferì quindi più fuori città, in Borgo Dora dove, il 27 aprile 1832, fondò la Piccola Casa della Divina Provvidenza, nota anche come “Il Cottolengo”. Gettatosi a capofitto in un’attività instancabile, presto radunò intorno a sé molti altri collaboratori e collaboratrici che lo affiancarono nel suo progetto e ne raccolsero l’eredità dopo la sua morte, avvenuta il 30 aprile 1842.

Oggi l’opera del Cottolengo è famosa in tutto il mondo per varie forme di assistenza e specialmente quella residenziale ai diversamente abili, soprattutto se in condizioni difficili, e per il grande impegno a restituire loro una vita piena, dignitosa e ricca di umanità. Il suo impegno ha contribuito a forgiare l’idea, raccolta dal volontariato contemporaneo, che non si può sempre aspettare la politica per risolvere i problemi gravi e urgenti delle persone e che, specialmente nello Stato moderno, la vera differenza non la fanno solo le leggi promulgate, seppure importanti, quanto l’umanità, la generosità, le energie e il tempo dedicato dalle persone al servizio di altre persone. Semplicemente, ciascuno di noi può fare la differenza per un mondo più umano e più giusto e chiunque abbia una coscienza cristiana non può occuparsi solo di questioni religiose e di culto.

La figura di papa Pio V, un inquisitore diventato papa, apparentemente, conduce in un’altra direzione: quella della forma del rito e della lotta all’eresia. Ma sarebbe uno sguardo superficiale. Faremmo un grave torto a papa Ghislieri se lo raccontassimo come l’eroe dei più tradizionalisti e conservatori. Pio V fu decisivo per la trasformazione della Chiesa Cattolica e per l’abbandono di tante concezioni e pratiche radicate che avevano contribuito al disastro del secondo scisma più grave della storia della Chiesa. Fu un papa coraggioso che attuò senza esitazioni dei cambiamenti epocali, che si erano resi da tempo necessari e la standardizzazione del Rito della Messa secondo la tradizione romana fu solo uno di questi.

Oltre la Messa, Papa Pio V cercò di semplificare e riorganizzare il calendario liturgico, ridusse il numero delle festività e delle celebrazioni locali e promosse l’uniformità nella celebrazione dei santi e delle festività, dando a esso la struttura che possiede ancora oggi. Su questa stessa linea promulgò la riforma del Breviario, il libro di preghiera inizialmente pensato per sacerdoti e religiosi e oggi passato nella pratica quotidiana anche dei laici. Fu anche uno dei primi a farsi carico dell’importanza di una fede trasmessa, insegnata e comunicata con trasparenza, e a questo fine commissionò la stesura del Catechismo Romano, che riassumeva la dottrina cattolica in modo chiaro e accessibile. In un periodo di accesa divisione, di guerre e rivalità politica, cercò di pacificare e riunire il mondo cristiano per contrastare l’espansione dell’Impero Ottomano e proteggere l’Europa. Fu uno dei principali promotori della Lega Santa, che ebbe un ruolo cruciale nella vittoria a Lepanto nel 1571.

Pio V sapeva anche bene che uno dei motivi che avevano condotto al successo della Riforma protestante erano stati dei cambiamenti sempre rimandati, accompagnati dalla decadenza morale degli uomini di Chiesa e a questo fine intensificò gli sforzi per promuovere la santità del clero e dei laici, esigendo da tutti un comportamento etico e una disciplina rigorosa. A questo fine, fu l’inventore del Seminario, inteso come collegio specializzato per la formazione del clero. Sulla stessa linea, Pio V incoraggiò la riforma delle varie congregazioni religiose e monastiche, incoraggiando quelle nuove e promuovendo l’osservanza delle regole originali e una vita più austera, genuina, davvero dedicata a Dio.

Pio V fu un amante della vera sostanza della Tradizione, più che delle cose “sempre dette e sempre fatte”, e fu così protagonista e promotore di un cambiamento epocale in un periodo in cui i problemi erano molti e gravissimi. E questo dovrebbe farci riflettere seriamente su come dovremmo leggere le ricorrenti divisioni interne alla Chiesa tra “progressisti” e “conservatori” in un’istituzione per sua natura “semper reformanda”.

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La santa “influencer” del XIV secolo

Santa Caterina da Siena è una figura storica assolutamente unica e originale, ai suoi tempi come ai nostri. Nacque nel 1347 con il nome di Caterina Benincasa, da Lapa Piagenti e Giacomo di Benincasa, un tintore di Siena. Era la penultima di ben 25 figli: un’esperienza familiare comunitaria oggi impensabile.

L’iconografia la ritrae velata come una monaca, ma in realtà non era nemmeno una suora, bensì una terziaria domenicana o, come si diceva allora, una “mantellata”, per via del manto nero, un capo di vestiario allora comunissimo. In pratica, oggi la definiremmo una “laica consacrata”.

Nel 1375, mentre pregava nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, Santa Caterina ricevette le stigmate, che, tuttavia, rimasero un’esperienza soggettiva personale perché, secondo quanto ci raccontano i cronisti, divennero visibili solo dopo la sua morte.

Fu una mistica precocissima. A partire dall’età di sei anni e poi per tutta la sua breve vita Caterina ebbe visioni, tra cui quella in cui Gesù le metteva un anello nuziale al dito, in segno del suo “matrimonio” con Lui. Visse una vita di estrema penitenza, pregando incessantemente e infliggendosi digiuni prolungati, che, tuttavia, non le impedirono di avere una vita sociale intensa, piena di energia, in continua e travolgente attività, con un seguito vastissimo tra i suoi contemporanei, uomini e donne. Caterina potrebbe ambire al titolo di patrona di ogni “influencer”.

La sua fu una figura prestigiosa nella cultura e nella politica dell’epoca. Con una personalità carismatica e una profonda conoscenza della teologia, armata di una penna tagliente, non esitò a entrare in contatto con leader politici e religiosi per promuovere la riforma della Chiesa e la pace tra le città-stato italiane in guerra tra loro. Nel corso della sua breve vita, scrisse lettere a quasi tutti i potenti dell’epoca, esortandoli a cambiare il loro comportamento e a seguire la via della giustizia. Fu determinante soprattutto nel convincere Papa Gregorio XI a tornare a Roma dal suo esilio ad Avignone nel 1377. Perciò, chi detesta la presenza e l’influenza del Vaticano in Italia, dovrebbe prendersela più con lei che con l’Imperatore Costantino.

I suoi scritti sono abbondanti e tutti di ottima qualità. Tra le tante opere, Santa Caterina è autrice del “Dialogo della Divina Provvidenza”, noto anche come “Il Libro della Divina Dottrina”, un’opera mistica e teologica scritta in volgare toscano, sulla scia della lingua di Dante, e che rappresenta uno dei capolavori della letteratura italiana.

Morì a Roma il 29 aprile 1380, all’età, guarda caso, di 33 anni. Fu canonizzata nel 1461 da Papa Pio II, e nel 1939 fu proclamata patrona d’Italia insieme a San Francesco d’Assisi. Nel 1970, Papa Paolo VI la proclamò Dottore della Chiesa, la prima donna a ricevere tale titolo, condividendo il podio con Santa Teresa d’Avila.

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Tutorial per dialogare in diretta col prof via Discord (abbonati)

Qui sotto il file con il tutorial in Word da scaricare:

Qui invece il file in pdf che potete sia scaricare che consultare online.

Qui di seguito infine il testo del tutorial, se volete leggerlo direttamente sul blog:

 Aprire la homepage del programma

discord.com/

Fig. 1

Dopo aver accettato tutti i cookies o selezionato le proprie preferenze, cliccare su

Scarica per … (Windows, Mac,… dipende dal sistema operativo in uso e che Discord rileva automaticamente).

Inizia il download del file di installazione DiscordSetup.exe

Aprire nel PC la cartella Download, cliccare sul file di installazione e il programma si installerà. Al termine dell’installazione comparirà la schermata in Fig. 2

Fig. 2

Cliccare Registrati

Si aprirà una nuova finestra (Fig. 3)

Fig.3

Inserire la propria email, il nome utente, la data di nascita e mettere il segno di spunta per confermare di aver letto i Termini di servizio e l’informativa sulla privacy. Nella schermata successiva (Fig. 4) confermare di essere umani spuntando la casella corrispondente e in seguito selezionare alcune foto per rispondere ad un quesito che Discord propone (Es. selezionare tutte le foto con cavalli in movimento).

Fig. 4

Ora è il momento di consentire a Discord di verificare il proprio account.

Aprire la posta in arrivo (e/o controllare la cartella Spam) dell’indirizzo email che si è fornito a Discord e cliccare Verifica email (Fig.5).

Fig. 5

Verrà data conferma che l’email è stata accettata con l’apertura di una nuova finestra che costituisce la schermata di base (Fig. 6).

Fig. 6

Ora è il momento di collegare Discord al canale YouTube di Bella, Prof!

Nella schermata in basso a sinistra (Fig. 6) possiamo notare il nostro nome utente (nell’esempio SempreIo) e altri simboli. Quello che ora interessa è il simbolo delle Impostazioni (ingranaggio) che deve essere cliccato (Fig.7)

Fig.7

La nuova finestra (Fig. 8) fornisce varie impostazioni ma ora interessa il collegamento a YouTube.

Fig. 8

 Fig. 9

Dal menu a sinistra cliccare Collegamenti e nella nuova finestra (Fig. 9) l’icona di YouTube.

Discord si connetterà automaticamente con l’account YouTube ed elencherà nella scheda Collegamenti tutti i canali con abbonamento e quindi anche il canale del Prof.

È possibile verificare il funzionamento corretto del programma soprattutto l’audio e voce che sono fondamentali per partecipare alle dirette del canale Bella, Prof!

Torniamo alla schermata delle impostazioni come indicato in Fig. 7 e, facendo scorrere il menu a sinistra, selezioniamo Voce e video come indicato in Fig. 10

Fig. 10

La finestra corrispondente presenterà diverse opzioni. Importanti sono quelle dell’Impostazione della voce (Fig.11)

Fig. 11

Le impostazioni (Default) indicate in figura, sono adatte se si usano microfono e altoparlanti del PC. Tuttavia, si hanno migliori prestazioni con auricolari/cuffie con microfono e, in questo caso, le impostazioni vanno cambiate come rappresentato in Fig. 12

Fig.12

N.B. – Potrebbe essere che le opzioni in Fig. 12 siano diverse perché dipendono dai programmi installati nel computer. Tuttavia, è possibile ed è sempre consigliabile, fare delle prove e verificare. Come? Cliccando il pulsante Verifica indicato in Fig. 12 e iniziando a parlare; si sentirà la propria voce e si rileveranno eventuali difetti.

Fig.13

Intanto che si parla la barra si colora di giallo e, terminato il test, clicchiamo il pulsante di interruzione come indicato in Fig. 13.

DIRETTA COL PROF

Avviamo Discord e selezioniamo il canale YouTube del Prof. Fig. 14

Fig. 14

Seguiamo la diretta su YouTube e quando il Prof passa alle domande e a Discord, per prima cosa silenziamo il canale cliccando l’altoparlante che apparirà barrato (Fig. 15). In questo modo si eviteranno gli echi che a volte abbiamo sentito disturbare le dirette.

Fig. 15

Poi passiamo su Discord che ci fornirà l’audio per la diretta.

In successione disattiviamo il microfono cliccando l’icona (Fig. 16) ed entriamo nel Canale Vocale (Fig.17) che si selezionerà cliccando la voce corrispondente nel menu a sinistra. Comparirà un’altra voce: Generale (Fig. 17) e, cliccandola avremo la possibilità di comunicare.

Fig. 16

Fig. 17

Si potrà continuare a seguire la diretta su YouTube sfruttando l’audio di Discord.

Quando si desidera comunicare, si “alza la mano”. Come? Riattivando il microfono che si era disattivato in precedenza (Fig. 16). In questo modo il Prof vede che qualcuno è pronto a intervenire. Al termine del proprio intervento, disattivare il microfono e al termine della diretta togliere la connessione audio come indicato in Fig. 17, in caso contrario, quanto diciamo e/o ciò che viene rilevato dal microfono è udibile a tutti.

RIASSUMENDO una modalità operativa veloce potrebbe essere la seguente (ma ognuno poi trova la propria).

  • Qualche minuto prima della diretta avviamo Discord e impostiamolo (Fig.14);
  • Passiamo a YouTube per seguire la diretta;
  • Quando il Prof. dice di passare alle domande silenziare l’audio YouTube (Fig.15);
  • Passare a Discord e fare quanto indicato nelle Figg. 16,17;
  • Tornare su YouTube per continuare a seguire (sarà Discord a fornirci l’audio);
  • Se si desidera intervenire aprire Discord e riattivare il microfono e, volendo, ritornare su YouTube.

NOTA FINALE

Quando si riavvierà il PC, Discord si avvierà automaticamente e questo potrebbe non essere gradito per diversi motivi. Per evitare che questo avvenga, andare nelle Impostazioni e selezionare Impostazioni Windows, togliere il segno di spunta nell’impostazione corrispondente (Fig. 19).

Fig. 18

Fig. 19

Per avviare Discord, premere START e selezionarlo come si fa per gli altri programmi (Fig. 20)

Fig. 20